Recensione di Graziano Giacò
Fremer di liriche che s’aggrovigliano allo strato ipnotico lanciato in aria, in attesa dell’esplosione. Nuvole da passeggio, grigie d’anima svanita, sguardi alti di cielo confuso con il bigiare della notte color amarena, note pigiate nell’involucro notturno, stelle spalmate sul cuore. Teletrasportarsi su onde tambureggianti, come cavalli schiumanti poesia mal calibrata con venature di delirio cosciente al sapor d’acquerello.
Effimera assunzione di colori aritmetici dallo spartito color sabbia, in un enigmatico dondolarsi su strutture dal profilo arcobaleno, ove voci si rincorrono nello spaziossigeno restituendoci partite di ping pong che riducono l’ascoltatore all’assuefazione inconsapevole. Commistioni di suoni fremono nell’urto sottinteso di tutte le urla sospirate dalle onde sonore suicidatesi nell’arco voluttuoso della composizione “in crescendo”: una stazione televisiva distribuisce echi di chitarra marittima.
Saliscendi d’elettrocardiogramma elettrofuturista, luminoso basso scoperchia la seconda pelle, causata dall’inascoltar molesto delle nostre antenne. Accensione stellare di vibrazioni imbrigliate in esercizi di stile (libero), effluvio di note decadenti che fondono il loro profilo con il respiro cangiante del canto, impossibilitati all’improduttività cerebrale, conquistando vette di minimalismo velenoso, mirabile incastro di visioni musicali pitturate sulla schiena del ritmo, in uno scivolo beatlesiano che attorciglia la memoria visiva in un dorato su e giù nadsat, montagne dal linguaggio russo che spediscono nell’orbita del suono concentrico le particelle subliminali del cervello umano.
Franky, la dislessia umana d’un comprendersi che non ci compete, il superomismo ridotto ai massimi termini, terminale. Linguaggio che si fa lingua ove riposa il verme della mela di Adamo ed Eva, parole adibite a rimbalzo illetterale, un frigorifero pieno di tedesco a lunga scadenza. Voraci evasioni surrealiste, sinfonie da ultima spiaggia, congetture dadaiste al sapor di liquirizia contraffatta. La gioventù infuria, la batteria distribuisce le sue trappole all’interno di schemi predisposti all’autodistruzione, semplicità deflagrata per venir poi balenata in termini di disinvolta complessità (underunderground). Assenza di gravità nell’iperuranio masticato da una chitarra roteante, lacrime vestite di pioggia s’avvinghiano alle nostre labbra intestinali.
Scegliti la tua canzone ed indossala prima d’uscire di casa. Lampi d’oltresuono, synthetismi estetici, pop delirante semilisergico, librarsi d’effusioni ancestrali, evolversi joyciano nell’incontro d’arrangiamenti utopici con voci criptate, in un impasto tendente al sogno mai sognato di marinaio maltese. Centrifuga orchestrale, verità capovolta, albatro che s’addormenta nelle fessure delle nostre paure.
This is Echopark, i cui alberi vanno “ascoltati” con le cuffie ben incollate sui nostri fianchi. “We are the revolution, but we have no time to riot”. Un epitaffio generazionale.
TREES – ECHOPARK
(Enclaves/WWNBB, 2013)
- Cranes
- Teleportation
- Mountain
- Franky
- Youth and Fury
- Raindrops
- Gray Clouds
- Brother
- No Time to Riot
- Waves
- For Lore
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