Live report di Alina Dambrosio
L’inizio non è stato dei migliori. Gli step da superare sono stati tanti: chiavi dimenticate, ritardo dell’aereo, quasi un percorso a ostacoli. Non sapevamo cosa ci aspettasse. Arriviamo sull’isola di Obùda nel pieno della notte, a bordo di un furgoncino che ci traghettava tra buie e strette vie della periferia di Budapest e tra palazzoni che portavano il segno dei bombardamenti. Si riconoscevano a prima vista quelli che erano diretti allo Sziget, cosa che legittimava le presentazioni. Conosciamo due ragazzi campani e con loro ci avventuriamo verso l’ingresso.
Se ripenso a tutta la settimana, sembra un sogno, un viaggio della mia mente. All’inizio l’entusiasmo è stato smorzato da scene, per così dire, agghiaccianti che ci hanno accolto. Stanchi, stremati, trasciniamo la valigia lentamente, alla ricerca del nostro campeggio. Ero molto titubante sulla situazione che mi si era presentata, avevo voglia di curiosare, di un letto comodo e invece ci toccava gonfiare il materassino, che sarebbe stato il nostro pseudo letto, circondati dai rifiuti dei nostri vicini di tenda.
Arrivano intanto le 5 e ci godiamo la prima alba di Budapest, quando decidiamo di andare a dormire, o almeno ci proviamo tra gli attacchi dei moscerini, le difficoltà della tenda e le grida della gente che continuava a far festa. Il sole ci concede a stento tre ore di sonno , il mio risveglio non è dei migliori, non ho ancora visto niente di quello che immaginavo. Non ci resta che iniziare la perlustrazione. Il Puglia Sound è sentirsi a casa a chilometri di distanza, inizi a chiacchierare, come se il fatto di essere italiano ci facesse sentire una grande famiglia, facce conosciute a testimoniare che viviamo in piccoli mondi. Accenti familiari, altri un po’ meno.
Il buongiorno è a suon di riff e sonorità anni 70, gli Sportivi sul mambo stage spaccano. È questo l’inizio del mio Sziget, non poteva che darmi carica. Il programma del mambo stage del mio primo giorno, mercoledì 7, è di tutto rispetto: dopo il live degli Sportivi, i pugliesi Redrum alone, elettronica nostrana. Sono tutte belle le facce che incontri, la gente sorride, coinvolge, mi guardo attorno con il sorriso stampato sul viso. È la gioia. L’isola è enorme, tutti i palchi hanno il loro perché, oltre che una programmazione da panico. Alzo gli occhi, sono avida di ogni immagine, di ogni scorcio, lo Sziget eye (la ruota panoramica), la fila dei banchetti con prelibatezze (non sempre) con i sapori del mondo, i vari pikachu, orsi e le tutine blu (ancora mi chiedo come facesse la gente a travestirsi con tutto quel caldo) e lì, maestoso, il Main Stage, ora vuoto: di lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Sono senza parole. Non ho mai visto qualcosa del genere, in un attimo dimentico tutte le difficoltà del campeggio, le disavventure precedenti al viaggio che non promettevano nulla di buono. In pochi minuti fiumi di gente scorrono verso il Main Stage, ignoro chi a breve salirà sul palco. Sicuramente qualcuno d’importante.
Gli Skunk Anansie e l’energia di Skin: è qualcosa di surreale come da un corpicino esile esca tutta quella potenza. Inutile sottolineare che il live, nonostante i gusti personali, era da non perdere. Tra il concerto degli Skunk Anansie e quello dei Die arzte il cielo si colora di stormi di palloncini che ondeggiano, che toccano le “vette” della ruota e la oltrepassano, tutti con il naso all’insù, alla ricerca di odori, cercando di fissare dentro di sé ogni momento per paura che tutto fosse un sogno.
Si stabilisce un feeling particolare con quelli che poi sarebbero stati i nostri compagni di Sziget. Dopo l’ennesima birra siamo tutti in attesa di una delle perle di questo Sziget 2013, mi si chiude lo stomaco. Sicuramente una delle cose che ho imparato allo Sziget, è quella di sgattaiolare con molta nonchalance fin sotto il palco. Arrivo alla meta, sola, vedo di fronte a me la storia della musica: Birthday party, Grinderman e The bad seeds, un solo filo conduttore: Nick Cave.
Un carisma spiazzante, una voce che ti segna, profonda. We No Who U R è il brano che apre il concerto, un concerto che va in salendo, cala un velo silenzioso sul pubblico, gli occhi sono solo per lui, brividi, emozione, occhi lucidi, per un momento dimentico tutto quello che c’è intorno, il mio spirito è totalmente catturato. Dopo la calma iniziale, lascia il suo fare intimistico e si carica, viene verso di noi, oltre le transenne, non si concede mai totalmente, stringe mani, mi è vicino, riesco a guardarlo negli occhi, mi scoppia il petto. Le note di Push the sky away entrano nella pelle. Stato di trance. Occhi chiusi. Nemmeno il tempo di realizzare, di metabolizzare quelle emozioni e un’altra situazione ci travolge. È ciò che mi ha sorpreso di più dello Sziget, non essere mai sazi di musica, era un bombardamento sensazioni, che forse a distanza di settimane ancora non riesco a descrivere. Totalizzante.
Accoppiata d’obbligo: Main stage e A38, che prende il nome da uno storico locale/battello alternative sul Danubio, a guardarlo sembrava il tendone di un circo, si era guadagnato la mia preferenza per tutti i concerti che ospitava. Quella sera offriva: Bat for Lashes e l’emozione di stare su un palco, un mare di gente, lo sguardo torvo del dj a cui avevo rubato la scena. Ed era stata solo la prima giornata, così intensa che sembrava fossimo lì da più giorni, anche per la complicità e la familiarità che si era creata con le persone che avevamo incontrato. Familiarità allo Sziget non è sinonimo di ciò che è già noto, perché Obùda sorprendeva sempre: la sua spiaggetta, il circo, le zone per famiglie, il bungee jumping, il labirinto, l’area dedicata all’arte.
Lo Sziget non è solo musica. Quella del festival non è un’esperienza come altre, è una filosofia di vita, trasuda cultura, non solo divertimento, almeno per quanto riguarda la mia esperienza e i miei propositi. All’interno del festival oltre ad estemporanee d’arte, c’erano istallazioni come il Mirazozo Luminarium, composizione in plastica, simile un labirinto, dove la gente aveva la possibilità di contemplare i giochi di luce, entrando in uno stato quasi paradisiaco, ma non è il solo. Accanto al Colosseum, sala circolare all’aperto, posto in cui a tutte le ore del giorno e della notte ci si poteva divertire sotto cassa, c’erano strutture a forma di uova giganti totalmente in legno, al cui interno ci si poteva rilassare e chiacchierare. Sculture ungheresi adibite per la quotidianità del festival, per un riposo tra un concerto e l’altro.
Allo Sziget, però, non c’è tempo per dormire. È una sensazione strana, da una parte sembra che sia un unico giorno da quando siamo arrivati, perché soprattutto con l’avvicinarsi della fine, non vuoi che quell’avventura finisca, dall’altra per intensità sembra un mese concentrato in una sola settimana. Spostandoci da un palco all’altro, si era travolti da piccole band di ogni genere, dal folk al blues, al rock and roll di un trio travestito da chef, alle cover di un soggetto molto particolare, che a tratti sembrava Geppetto (sì, quello di Pinocchio), che cantava con il suo organo a manovella. Spettacoli circensi, corse pazze di macchine d’altri tempi, polveri di colore, fuochi d’artificio, in una parola SPETTACOLARE, qualcosa che non si può immaginare se non la si vede. Niente è lasciato al caso, ogni cosa è studiata, persino gli spazi dedicati al relax del corpo e della mente, dove è possibile ricevere un massaggio o avere una consulenza spirituale, allo Sziget è possibile persino sposarsi, in una cappella stile Las Vegas.
Una delle zone che ho preferito è stato il Chill garden, 1000 mq di tappeti colorati, cuscini, dove si poteva accedere solamente scalzi, un non-stop di visual, musica ambient, dub e chill out per darmi la buonanotte o il buongiorno (a seconda dei punti di vista). È impossibile vedere tutti i concerti e mi sono meravigliata della mia velocità nel passare da un palco all’altro pur di non perdermi in sequenza e quasi tutti allo stesso orario Dub FX, Emiliana Torrini ed Editors, passare dalla carica drum and bass del party Arena alla dolce nostalgia dell’A38 fino al Main stage per un tuffo in un passato recente. Nonostante le mie acrobazie per perdermi il meno possibile, sono riuscita a vedere forse la metà di tutto quello proposto, forse una settimana è troppo poca, ma il fisico non regge.
Ce n’è davvero per tutti i gusti, da David Guetta e ai Tame Impala nella stessa sera, l’unica occasione in cui non ho avuto dubbi su chi ascoltare, mettendo in secondo piano lo show finale, prediligendo la psichedelica australiana di uno dei migliori gruppi degli ultimi anni, che a vederli pare assurdo che quei ragazzini possano darti così tanto, come chiudere in bellezza questo magnifico viaggio nell’isola che (non) c’è.
Arrivo in ritardo per il concerto degli Afterhours e rimango poi piacevolmente sorpresa da Regina Spektor nel pomeriggio del Main stage, talento straordinario, a mio parere. I nomi sono tanti: Biffy Clyro, Bad Religion, Ska-P (di cui ho visto solo il sound-check e anche in quell’occasione vi lascio immaginare il pogo facile, come ritornare quindicenni ), Franz Ferdinand, durante il cui live sono sopravvissuta ai vortici di gente , grazie all’esperienza fatta durante anni di i concerti.
Per rimanere in tema indie non male anche il live dei Fratellis, Mystery Jets nel primo pomeriggio e il punk dei Cribs. Fine e adrenalinico Gesaffelstein, e la necessità di abbracciare le casse, stessa urgenza per Boys Noize. Altro concerto che ha meritato è stato quello dei Blur, più per affetto e per ricordare i bei tempi d’oro, Damon aveva colonizzato il palco, saltava da una parte all’altra del Main Stage, si dava al suo pubblico, che era super carico alle prime note di Girls and Boys, pezzo d’apertura, e mantenendo l’adrenalina anche durante le ballate più romantiche come Sweet Song o Tender.
Lo Sziget incarna la libertà d’espressione, l’isola che non c’è esiste e si chiama Obùda: The Island of freedom!