Recensione di Marco Orlandi
L’ascolto della band di Fabio Fiorina mi ha fatto provare un’insolita curiosità. I pezzi sono molto belli, mai banali, arrangiati benissimo, cantati e suonati bene, ma non è questo il punto: ciò che è degno di attenzione è il fatto che in ogni brano si concretizza una certa maturità, abbastanza rara fra i gruppi emergenti. Fraseggi di chitarra equilibratissimi e mai invadenti, riff di basso sorprendenti e insoliti, brani che abbracciano generi molto diversi pur mantenendo una singolare armonia di fondo.
I The Clockers si collocano in una dimensione inafferrabile: al primo ascolto si ha l’impressione di trovarsi di fronte a cover di pietre miliari del rock sopite nella coltre dei nomi, dei concerti, delle copertine sbiadite in qualche anfratto della discoteca personale (Eric Clapton? Mark Knopfler?). Poi ascoltando e riascoltando ci si rende conto di essere davanti a qualcosa di molto più originale, non tanto nel genere – che abita il territorio del rock e del blues, richiamando le solidità delle strutture musicali di Springsteen e dei Dire Straits con incursioni in un celtic più o meno colto e raffinato – quanto nel fatto che tutti i brani hanno una personalità già ben definita. Insomma, è come incontrare un tale per la prima volta e avere l’impressione di riconoscere una star pur senza averne chiara l’identità.
Ora, la cosa che rende questa band degna di attenzione è il loro senso di “divenire”: non è il loro presente che ci affascina, ma il futuro. Avvertiamo un fondo poetico, un intrecciarsi di tensione e bellezza che inducono a pensare che la loro prossima musica sarà ancora meglio di questa. Le incursioni alla Ian Anderson, gli arpeggi country, le dissonanze e le asprezze melodiche che non disturbano mai l’armonia ci dicono che la strada è apertissima a un percorso innovativo che creerà nuove alchimie per le orecchie ed il cuore. Insomma, l’orizzonte di questo esperimento è ben oltre Love & dirty roads, e difficilmente nel giovane rock italiano si avverte questa profondità, specie se unita a una già solida attenzione all’equilibrio formale e strutturale dei pezzi.
I The Clockers si potrebbero accontentare di sistemarsi nel “tranquillo” filone del rock melodico, magari facendo da spalla ai grandi qualche volta, conquistando qualche posizione nelle chart e un concertino al Tenda. Ma le ambizioni di Fiorina vanno oltre perché oltre va la musica che suona, che è colta, raffinata, poetica, espressa in un linguaggio comprensibile e diretto, mai sprezzante, altezzoso né autocelebrativo.
L’arte è la forma che si dà a contenuti oscuri dell’inconscio, è la concretizzazione di sentimenti e sensazioni che dimorano al di sotto di ciò che noi stessi comprendiamo, una manifestazione del mistero che ci portiamo dentro e a cui solo chi mette la propria anima a “disposizione” dell’arte stessa riesce a dare forma. Gli altri possono soltanto viverlo di seconda mano.
I The Clockers dimostrano di avere questo dono e fanno ben sperare per il futuro.
LOVE & DIRTY ROADS – THE CLOCKERS
(One More Lab, 2013)
- Bros and guns
- Mr. Medicine Man
- We’ll dance again
- Hard times for memories
- The Jokerman
- Look at them
- Gund and knives
- I can’t lose my mind
- Il gioco dell’angelo
- I will praise the Lord
- Medicine Man
- Fragile
- L’ultimo addio
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