Live report di Francesca Vantaggiato
Finalmente un po’ di casino!
Era da tanto che non finivo a un concerto punk e che non mi ritrovavo a bere birra in uno scantinato. Perché questo è il Closer di Roma, un locale strutturato su due piani: sopra, qualche tavolino e un bancone da pub; sotto, un vero e proprio sottoscala in pieno stile garage. Niente di meglio per del sano hardcore. Sono arrivata un po’ tardi, catapultata da Milano direttamente al concerto, dopo solo sei ore di viaggio condivise con degli sconosciuti in una blablacar. Un’entrata molto punk, solo che mi sono persa l’inizio del live. Nessun problema, ho recuperato subito dopo, visto che la serata era già diventata elettrica.
Gli apripista sono i Lexicon Devils: il nome è tutto un programma, richiama immediatamente alle orecchie il punk californiano di fine anni ’70, quello dei Damned e dei The Germs. Sulla stessa scia, quelli che si dimenano sul palco del Closer sono degli autentici gladiatori hardcore che dal 2011 lottano nell’arena romana: Andrea canta/urla e striglia la sua chitarra; Ludd lo sostiene nei cori e violenta le corde del basso; Matteo scatena le sue enormi braccia su piatti e rullante.
La faccenda si fa seria, siamo tornati al ’77, alle canzoni strillate, ai ritmi schizofrenici, ai bassi pesanti che caratterizzavano il genere alle origini; proprio questo riferimento mi viene sottolineato da Andrea, a fine concerto, fumando sigarette sul marciapiede. Gli chiedo: “ma perché vi ostinate a scrivere i testi se poi alla fine non si capisce niente quando cantate?” Lui risponde: “perché noi facciamo riferimento a un genere musicale che è così fin dalle origini.” Effettivamente, anche quando cantavano i D.O.A e i Minor Threat non si capiva un benemerito. Ci sta. La verità è che il linguaggio basic di questa “gioventù sonica” è la musica: è l’impatto dei decibel che fa la differenza. Chi vuole capire i testi si compri Vegetative state, l’album in uscita il 15 maggio per l’etichetta texana Agrowax Records. Si tratta del loro secondo EP contenente cinque brani veloci e sporchi, proprio come vuole la vecchia scuola hardcore.
C’è bisogno di questa musica, di qualcuno che riprenda l’hardcore, il punk, il garage delle origini e ce li presenti di nuovo e ancora, nel terzo millennio, nella cosiddetta modernità liquida. La gente vuole che questo accada, non aspetta altro e lo dimostra ai concerti. Il pubblico poga, si spinge, si abbraccia, si lancia e canta. È giunta l’ora dei The Rippers.
La band, che con questa data apre il tour italiano, ha qualche ruga sul volto e diversi album e concerti alle spalle. Il progetto nasce nel 2001 a Cagliari, prendendo vita dall’esperienza degli Sleepwalkers, storico gruppo garage-punk del luogo, da cui provengono Paolo Bonino (voce) e Giovanni Di Malta (basso), a cui si sono aggregati Alessandro Ladu (batteria) e Claudio Zucca (chitarra). Con loro continua e cresce la scarica adrenalinica di garage-punk anni ’60, mescolato al più rozzo r’n’b di stampo europeo. Sono una bomba acustica: i quattro “mod maniacs” si scatenano, battono sui loro strumenti con ritmi assassini, urlano frasi ansimanti, si muovono come fossero posseduti. Sembrano una locomotiva lanciata a tutta velocità che sbuffa isterica fino a schiantarsi contro un inevitabile muro. È un sound dirompente ed elaborato, si sente che sanno quel che fanno. C’è la pesantezza e la ruvidità del garage, su cui sono ammassati strati di beat anni ’60, di armonie blues, di british rock e di punk seventies. Il pubblico recepisce; qualcuno sale sul palco e viene ricacciato al suo posto da una pedata del cantante. Si rovescia una cassa; si fa casino.
Queste cose ci piacciono, e tanto. Ne vogliamo di più. Punk is not dead.