Intervista di Claudio Litrico
Luca Impellizzeri e Ivano Amata sono due ragazzi di Troina, in provincia di Enna.
Il loro aspetto tradisce un’ambiguità presente anche nella loro musica: appaiono stranamente gentili e duri nello stesso momento, e – ancora una volta, come la loro produzione – non rivela immediatamente le loro origini mediterranee.
Tre anni fa hanno dato vita al progetto Da Black Jezus “con l’esigenza di miscelare cantautorato acustico e blues ad una ritmica beat soul minimale”.
Esattamente un anno fa hanno dato alle stampe il debutto su media distanza, Don’t Mean a Thing, che ha raccolto il plauso della critica e li ha portati a traguardi prestigiosi come la vittoria del Marte Live 2014 per la categoria video e alla selezione per la preview dello Zanne Festival 2015.
Li abbiamo incontrati in occasione dell’uscita di Don’t Mean a Remix, rivisitazione in chiave elettronica dell’esordio, con il contributo di acts quali Montoya, Le Parc, Maiole, Zero Call e Fab Mayday.
Come e quando nasce l’idea di una versione remixata del vostro EP?
In realtà lo ha voluto fortemente Sandro Giorello, redattore di Rockit a cui era piaciuto tanto il nostro ep d’esordio Don’t Mean a Thing, è stata sua l’idea. Ce lo ha proposto, a noi piaceva l’idea di mettere “in discussione” il mood intimista dell’originale e abbiamo accettato al volo. Il disco è stato poi masterizzato dalla nuova etichetta di musica elettronica palermitana, 800Hz Records, di Fabio Rizzo e Donato Di Trapani – tastierista di Nicolò Carnesi che ha anche coordinato tutte le operazioni con i vari producer.
Alcune canzoni nella nuova veste assumono una luce totalmente diversa rispetto all’originale; altre rispecchiano maggiormente il mood con cui le avevamo lasciate. Avete avuto un ruolo da supervisori o avete lasciato totalmente spazio all’estro dei vari producer?
Abbiamo lasciato totalmente carta bianca. A mio avviso non avrebbe avuto tanto senso interferire con il lavoro dei producer, ovvero alcuni dei “nuovi talentuosi” della scena elettronica italiana. Basti pensare che Maiole, polistrumentista campano che dimostra una maturità artistica che pochi possono vantare, ha appena vent’anni. I pezzi ne escono stravolti, nell’accezione più positiva del termine, e questo è il risultato che speravamo.
La vostra musica poggia su un impianto piuttosto minimalista, che viene qui ribaltato quando non addirittura scardinato (I’ll Be Dry): quanto bisogna leggere questa operazione in chiave futura? Manterrete sempre la porta aperta alla sorpresa, alla rivisitazione?
Già la nostra prossima uscita discografica avrà uno scarto deciso rispetto a Don’t Mean a Thing; abbiamo deciso di volgere le nostre sonorità verso il primo trip hop, al rap-soul di fine anni ’80. Penserei alla proposta sonora di da Black Jezus come ad un flusso, forse anche minimale poiché contiene pochi stravolgimenti armonici che appunto farebbero perdere “il filo del discorso”. La sorpresa, la rinascita sotto altre vesti, credo sia il fulcro di una vera ricerca artistica.
Parlando più in generale del vostro progetto, potreste rivelarci le origini dell’amore per l’anima nera dell’America?
La questione credo vada vista sotto diversi aspetti. La cultura afroamericana è peculiare poichè contiene, in qualsiasi sua manifestazione, anche la musica. Tutto parte dallo spiritual che si reincarnò in blues, cronaca di uno stato d’animo prima che espressione musicale. La consapevolezza, seppur lontana, della schiavitù come del retaggio nero, è il motore di tutta la musica afroamericana (dai gospel intonati in chiesa fino ai rap sputati all’angolo del ghetto) come di buona parte della letteratura (da Ralph Ellison, forse il più dotato tra gli scrittori afroamericani, fino a Edward P. Jones, che vinse il Pulitzer nel 2004 con un romanzo – The Known World – che ritirava in ballo dopo anni di silenzio lo spinoso argomento della schiavitù). Noi, in musica, cerchiamo di mischiare le diverse espressioni musicali afroamericane e farne un marchio di fabbrica. Della canzone d’autore italiana e del nostro retaggio tricolore, in tutta onestà, non ce ne frega assolutamente nulla.
Tu, Luca, stai anche per pubblicare un romanzo fortemente legato alla cultura afroamericana. Potresti parlarcene un po’?
LA TERRA CHIAMA è un romanzo pulp-storico, una personale rivisitazione del problema razziale durante la presidenza Wilson, il quale reintrodusse la segregazione razziale all’interno degli uffici presidenziali e contribuì, con le sue feroci politiche interne, al definitivo sterminio dei nativi americani. Negli Stati Uniti di quegli anni, la pratica del linciaggio e della giustizia sommaria erano all’ordine del giorno; la gente, alle volte, veniva arsa viva, cosa che non succedeva neanche nella Germania Nazista.
Sonny Porter, protagonista e voce narrante del romanzo, è un bluesman del sud che raccoglie granturco e che decide, grazie all’ideale socialista con cui entra in contatto, di affibbiarsi un posto nella Storia. Il linguaggio è feroce, si va per le spicce. Il linguaggio è gangstablues. Una volta messo in moto l’ingranaggio rivoluzionario, non si può più tornare indietro.
Fin qui avete ottenuto un riscontro forse insperato, le vostre prossime mosse saranno sotto la lente d’ingrandimento di molti addetti ai lavori. Diteci in poche parole cosa dobbiamo aspettarci dal 2016 targato da Black Jezus.
Bisogna aspettarsi il nostro primo LP, che sarà contraddistinto da una ricerca sonora decisamente maggiore rispetto a Don’t Mean a Thing. Da Black Jezus è una creatura musicale peculiare e non appartiene a nessuna “scena” o presunta tale esistente nel nostro paese. Faremo del nostro meglio affinché, negli anni e attraverso una continua ricerca sonora, la nostra estraneità rimanga tale.
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