Photo report di Maria Elisa Milo
Live report di Francesca Vantaggiato
Mi soffermerò poco su Bonetti e Giovanni Truppi dato che ne abbiamo parlato parecchio (vedi qui e qui), lasciando più spazio a Lucio Leoni di cui non abbiamo mai parlato finora. Che dire di Bonetti? Semplice e leggero come solo lui sa essere, peccato per il tempo risicato a sua disposizione, giusto giusto per cantarci cinque canzoni. Il pubblico non era molto numeroso, ma vedevo espressioni interessate e attente, oltre a due adolescenti che hanno scelto la sua musica come soundtrack per una limonata che è durata almeno dieci minuti.
Lucio Leoni è un tipico pischello romano: capello riccioluto, jeans larghi, Adidas Stan Smith ai piedi. Sale sul palco accompagnato da un chitarrista folk blues davvero niente male che dava un buon sostegno ai testi. Quello di Lucio Leoni è una sorta di teatro canzone di impronta popolare, con testi carichi di parole, mimica esagerata, vocalizzi vari e suoni onomatopeici. Il pubblico era composto in gran parte da suoi compaesani e c’era una ragazza che non ha smesso un solo secondo di riprendere il suo concerto e ad un certo punto ha anche urlato “me sto a mette a piagne!”. Il primo pezzo è stato Na bucia (dal suo ultimo disco Lorem Ipsum) e racconta di Roma com’era una volta, con un tono patetico, malinconico e nostalgico nel ricordo delle botteghe, dei nomi italici, dei rapporti tra vicini… Se ascoltate le canzoni che cantava Lando Fiorini negli anni Settanta trovate gli stessi discorsi che per me erano obsoleti già allora: prendiamo Na preghiera pe Roma sparita: “vorrei vedé pe na volta sola il fiume com’era pulito com’era / e le case co l’odore de vecchio / che me faceva sentì giovane“, oppure Vecchia Roma: “oggi er modernismo del novecentismo / rinnovanno tutto va / er progresso t’ha fatta grande ma sta città / non è quella ndo se viveva tanti anni fa“). Insomma, che senso ha ripetere le stesse cose dopo decenni e parlare di un passato che non c’è più da anni e che soprattutto non abbiamo mai vissuto, se non attraverso dei racconti? E tutti sotto a sognare di questa Roma che non esiste più, di un passato che è diventato ormai leggenda. Provo la stessa repulsione quando sento parlare i miei coetanei di periodi storici che in realtà abbiamo conosciuto solo tramite film o libri, ma di cui abbiamo un’innata nostalgia: il ’68, il ’77, gli Anni Sessanta, gli anni Ottanta, il Boom Economico, quando mio nonno era giovane e faceva il contadino, la rivoluzione russa, l’esplosione del punk inglese e avanti così. A furia di pensare a quanto era bello prima, ci si dimentica che noi viviamo e soprattutto possiamo agire in quest’epoca. E finiamo col piangersi addosso, glorificando un passato mai conosciuto e perdendo definitivamente il contatto con il presente. E questa, come diceva Richard Benson, non è robba pe me.
La seconda canzone invece mi è piaciuta molto, l’ho trovata davvero originale e divertente, dal tono intrigante e malizioso, recitata più che cantata, molto in stile Gigi Proietiti: Il caffé americano racconta la storia di un omino nella palla di vetro con neve finta (la boule de neige) che si innamora della sua proprietaria e le parla, la sogna, spera di poterla toccare o almeno di essere spostato sul comodino per starle più vicino. Un testo ironico pieno di battute ammiccanti, in romanesco sornione. Un verso in particolare mi ha suscitato una sincera risata: “tu non pensà che vivo chiuso e stai lontana / davanti al vetro stai in campana / pure così te posso amà / e se me pija pe sbajo poi lo sghiribizzo / faccio il matto e poi m’attizzo / e faccio nevicà“. I gatti di Largo Argentina anche mi è piaciuta parecchio (divertente l’intro che prendeva in giro Jovanotti e la sua fissa per le liste): una sfilza di nomi di gatti, sparata a tutta velocità: “Alfredo, Gianpiero, Pio, Calimero, Renato, Ursula, Mario che è tutto nero, Bufera,Cannella, Peppino e Boraccia che è detto così per via della faccia” che disegna una scena bellissima e pittoresca della capitale, raccontando una storia simpatica che diverte fino ad arrivare al punto massimo di ironia che è il finale totalmente spiazzante (non farò spoiler, se volete andatevela ad ascoltare). Il brano A me mi è stata un’altra dimostrazione di quanto veloce riesca a cantare Lucio Leoni, anche se s’è mangiato mezzo testo. Mentre la chitarra incalzava con un ritmo da stornello romano, lui ha iniziato a descrivere la questione “a me mi”, formula che fino a qualche tempo fa era totalmente aborrita dalla lingua italiana, ma che recentemente è stata introdotta nel galateo linguistico e adesso gode di piena stima. Si parte da questo fatto per fare tutta una riflessione sulla generazione dei nati negli anni Ottanta, di cui anch’io faccio parte: generazione che secondo le sue parole è “incompresa, morta, stanca, finita“, quella che “è cambiato il mondo ma noi non eravamo pronti“, quella che “a vent’anni eravamo comunisti o per lo meno di sinistra, oggi la sinistra non c’è più e non sappiamo che cazzo siamo“, ma soprattutto è “l’unica generazione cresciuta a pane e Nutella, pane e tu potrai avere tutto quello che non abbiamo avuto noi, e il problema è che noi c’abbiamo creduto e ogni volta che non ce lo danno sostanzialmente ce mettemo a piagne, solo che mamma non ce se incula più, perché ha capito che a differenza sua i soldi se li bevemo in un attimo“. Beh su questo non c’è molto da dire, perché il quadro della situazione è bello chiaro e le cose mi sembra che siano andate proprio così. Non mi piace piangermi addosso e penso che un problema della mia generazione sia proprio questo vittimismo sintetizzato magistralmente da Lucio con quel “sostanzialmente se mettemo a piagne”. Per questo, non amo cantanti e canzoni che fomentano l’autocommiserazione e le manie di persecuzione, mentre stimo chi riesce a dare una chiave di lettura diversa, propositiva o almeno umoristica. In questo caso, Lucio Leoni ha abbondato con l’ironia e il sarcasmo, fondamentali per raccontare e affrontare questa nostra situazione generazionale, economica, sociale e politica. Mi pare, insomma, che Lucio Leoni detto Bucho sia molto meglio quando dà sfogo alla parte ironica, ilare e teatrale che c’è in lui e che è ben evidente nei brani di Baracca e burattini (la sua prima musicassetta), mentre perde colpi quando s’incammina per il sentiero del cantautore impegnato di sinistra. Ma me lo rivedrei volentieri, magari a Roma.
Il live di Giovanni Truppi m’ha lasciato l’amaro in bocca. Per la prima volta, l’ho visto accompagnato da una band con basso, batteria e chitarra, oltre al suo solito pianoforte. L’Ohibò era strapieno di gente accatastata in sua attesa, un caldo insopportabile (dì la verità, Truppi, hai fatto alzare la temperatura per metterti in canotta) e c’erano un nugolo di ragazze sotto palco che urlavano assatanate e a momenti si strappavano i capelli. Partito in solitaria con la mitica Nessuno, è stato raggiunto poco dopo dagli altri musicisti che sono entrati sul palco incitando il pubblico a battere le mani. Ho resistito per due o tre canzoni, poi ho ceduto, non ce l’ho fatta più e sono uscita dalla sala. Questa cosa non mi succede MAI! Ma non riuscivo a vederlo e soprattutto a sentirlo; le urla delle fans mi infastidivano e mi deconcentravano; il suono della band era aggressivo e nervoso; le canzoni urlate. Niente: lo preferisco decisamente quando suona da solo o con la batteria, in ambienti più intimi in cui parole e suoni riescono ad essere ben percepiti e nei quali riesci a sentire i tuoi pensieri o almeno le tue emozioni. Certo è che i concerti di Truppi alzano sempre dei gran dibattiti: l’altra volta ci ha fatto riflettere la sua scelta di non suonare la hit Ho messo incinta una scema (per vostra info, stavolta l’ha suonata, quindi la discussione prosegue), stavolta è sorta la domanda: ma Giovanni Truppi è diventato un oggetto del desiderio, un’icona dei feticisti indie, un personaggio che verrebbe seguito qualsiasi cosa facesse, tipo un programma di cucina o un reading dei Promessi Sposi o un programma tipo Band da incubo? Ai posteri l’ardua sentenza.
Ci si vede al prossimo concerto.