Articolo di Fiamma Mozzetta
In un articolo di qualche anno fa, lo scrittore e giornalista musicale Rob Young ripercorre le origini della musica folk in Inghilterra, i suoi sviluppi e cambiamenti più recenti, mettendo a confronto i valori e i significati della tradizione folk con la sua identità hip, mainstream e urban di oggi. Partendo da una citazione del 1907 di Cecil Sharp – musicista, collezionista e, in breve, una delle figure più importanti per il folk revival inglese – che descriveva il folk come una musica sincera, autentica e pura, Young continua scrivendo di come ogni tentativo di tracciare le caratteristiche di tale genere rimanga ad ogni modo confuso ed intricato. Sin dal 19° secolo fino agli anni ’60 e ’70, la musica folk si intreccia infatti in modo ambiguo ad aspetti politici, storici e culturali e viene spesso usata in tempi incerti come una voce collettiva di rivolta, o come una via di fuga verso epoche passate.
All’articolo di Young segue la pubblicazione di Electric Eden: Unearthing Britain’s Visionary Music, un testo che sviluppa in modo più esteso l’argomento ma che si fossilizza proprio sul periodo che va dai primi anni ’60 all’inizio ’70. Il primo capitolo di Electric Eden racconta il viaggio della cantautrice Vashti Bunyar nel 1968, partita da Londra e diretta verso la Scozia. Sembra che l’artista sia partita a bordo di una carrozza trainata dal suo cavallo Bess per raggiungere un’isola sperduta che sarebbe dovuta diventare (da un’idea di Donovan!) una sorta di paradiso terrestre per artisti, musicisti e qualche poeta bohemien. Ovviamente, paradiso terrestre non lo divenne mai, ma Bunyar – che riesce comunque a raggiungere l’isola – accumula nel viaggio materiale utile per la realizzazione del suo primo disco, Just Another Diamond Day, che viene pubblicato nel 1970.
Nel 1970, però, vengono vendute poche copie e il disco non riesce ad ottenere il successo desiderato, colpa forse anche della scarsa pubblicizzazione e interesse da parte dei critici. Bunyar decide così di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi al figlio, sparendo quasi completamente dal mondo musicale per quasi trent’anni. Just another diamond day non viene tuttavia dimenticato e diventa non solo un disco abbastanza costoso e raro che attira l’interesse dei collezionisti, ma finisce anche per influenzare lo sviluppo della scena folk americana verso la metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo. Tant’è che Bunyar viene spesso citata come punto di riferimento da artisti come Devendra Banhart, gli Animal Collective e i Mutual Benefit; e considerata un’artista influente per la musica folk inglese al pari di Donovan o di Nick Drake. Ad esempio, Banhart – che ha collaborato nel 2014 con Bunyar all’album Heartleap – racconta di come giovanissimo, a Parigi, senza un soldo e senza amici, con la sola compagnia di una chitarra, Vashti gli salvò la vita. L’artista americano componeva canzoni che mandava poi a Bunyar, la quale rispondeva con suggerimenti o commenti incoraggianti.
Rose hip november, autumn I’ll remember è un verso dell’ottava traccia di Just another diamond day che, come l’immagine di copertina e le restanti canzoni, rappresenta l’atmosfera idilliaca che ha di recente catturato l’attenzione degli artisti americani. La delicatezza della voce di Bunyar e gli arrangiamenti acustici riescono a rendere accogliente ed intimo un mondo distante, immerso nella tranquillità e nell’inquietudine della natura, ed accompagnano gli ascoltatori attraverso storie di amori senza amore, di foglie invernali che da verdi sono diventate ora marroni, di libellule che volano su cieli antichi, di ruscelli arcobaleno che ridono, di vento, di pioggia.
La musica folk però, Young scrive, non rappresenta più oggi vecchie idee di paesaggi pastorali e non è più un simbolo di appartenenza verso una nazione o una comunità, ma è sempre più una musica di tendenza che si appropria di aspetti, di tematiche e di caratteristiche cercando in categorie musicali ed estetiche più vaste ed andando a dividersi successivamente in generi come il free folk, il freak folk, il folk psichedelico, l’acid folk, l’indie folk, la musica folktronica, il folk punk e così via. In particolare, l’etichetta folk rappresenta in gran parte anche un elemento che dona una sorta di elegante misticità e stravaganza non solo all’attuale scena musicale ma anche ad altre forme culturali, e che viene dunque adoperato un po’ dappertutto ad indicare l’appartenenza ad un movimento hip e urban appunto: uno stile di vita attento e noncurante, fatto di barbe lunghe e cibo bio.
Le parole di Young sullo sviluppo e sui cambiamenti della musica folk possono aiutare a riflettere, in modo più ampio, sul significato e sulla trasformazione dei generi musicali ai giorni nostri. Infatti, se prima erano in grado di aiutare – sebbene in modo anch’esso controverso – a definire e a categorizzare uno stile e un’identità musicale, oggi i generi non sono solo infinitamente molteplici ma sono perlopiù confusi, ibridi e mischiati a delle categorie commerciali. Spotify, ad esempio, li unisce a dei mood o a degli hashtag; e perciò accanto alle tradizionali categorie folk, jazz, pop e rock troviamo playlist dedicate a monday motivation, autumn acoustic, weekend hangouts e swagger.
Dunque a cambiare non è solo la musica ma anche il modo di relazionarsi ad essa: come i generi musicali vengono concepiti, formulati e commercializzati; svuotandoli, grazie a quest’ultima, piano piano di ogni senso sociale, musicale ed estetico.