Recensione di Francesca Vantaggiato
Willie Peyote arriva fino a tua nonna.
Quando ho scoperto Willie Peyote.
Qualche anno fa, ero a Padova con le mie ex-coinquiline dell’appartamentino bolognese dove ho vissuto gli anni migliori della mia vita. Dopo cena, per ricalcare le abitudini dei vecchi tempi, siamo andate al centro sociale Pedro: quando siamo entrate c’era una folla di gente in delirio per un tizio sul palco che cantava a squarciagola “FRIGGI LE POLPETTE NELLA MERDA BUON APPETITO FRIGGI LE POLPETTE NELLA MERDA BUON APPETITO”. Era Willie Peyote e per me è stato amore a prima vista. Anzi a prima polpetta.
Perché mi piace così tanto Willie Peyote?
Perché ha quella caratteristica comune a tutti gli artisti che stimo: lui fa esattamente quello che vuole, fregandosene del resto del mondo, disturbando, provocando, esagerando, sperimentando, facendo ridere e sorridere, smuovendo la coscienza di chi l’ascolta. Ma con una certa eleganza. Non si tratta di una qualità necessariamente esclusiva dei rappers, anzi. Ce ne sono a secchiate che si incensano di anticonformismo per poi fare marchette alla Peroni e scrivere testi uguali ad altri milioni di testi (tutti che si fanno le canne, tutti che hanno passato un’estate bellissima, tutti che odiano senza se e senza ma e via così alla grandissima). Io parlo di un quid che puoi ritrovare potenzialmente in chiunque, dal postino al pittore, dal cantante pop al punkettone: il coraggio di fare le cose a proprio modo, prendendosi tutti i rischi del caso. Willie Peyote mi piace perché, ad ogni disco, dimostra di voler custodire questa parte (importante) di se stesso e anzi di volerla ingrandire. E allora il mondo del rap lo guarda storto perché lo vede troppo pop; il mondo del pop lo guarda dall’alto verso il basso perché proviene dal rap quello duro, politicizzato, intelligente, reale. Ma lui se ne frega e anzi ti dice che andrebbe anche a Sanremo, così magari arriva pure a tua nonna, arriva pure ai leghisti, arriva pure alle casalinghe, ai meccanici, a quelli con la partita IVA. Del resto, solo ai cazzoni interessa se è più rap o più indie.
Perché mi piace così tanto sto disco?
Voglio iniziare col dire che mi ha emotivamente steso, letteralmente, facendomi una sorpresa che mi ha colto proprio sul personale: mi ha tirato fuori dal cilindro due comici per cui io stravedo, perché sono lucidi, cinici, sempre sul pezzo. Parliamo di Giorgio Montanini, ma soprattutto di Louis C.K. Quando ho sentito il suo inimitabile Of course, but maybe sono impazzita! Del resto, era inevitabile: sono entrambi PERFETTI per questo disco.
E poi mi piace perché parla di tanti temi che mi stanno a cuore e che penso siano gli argomenti su cui la nostra società mostra tutti i suoi controsensi più imbarazzanti: saccenza e qualunquismo che inquinano il web, libertà di parola, disoccupazione, incapacità dei politici, utilizzo dei social spesso violento e fine a se stesso, pregiudizi, femminismo, immigrazione, razzismo, religione, diritto all’aborto, strapotere delle banche, conformismo e anticonformismo, tristezza e autocommiserazione, amore e suoi disastri, diritto alla privacy, sterilità di certi cantanti, giornalismo fazioso e violento. E ancora parla della difficoltà nell’accettarsi, del difficile rapporto con se stessi e con la realtà, la nostra complicità in gran parte dei problemi di oggi, la difficoltà nel comunicare se stessi e nel capire l’altro. In questo senso, Avanvera sembra essere il manifesto del pensiero peyotiano.
E ancora, mi piace per gli arrangiamenti: c’è del pop leggero, c’è del jazz, c’è un po’ di funky e c’è addirittura un’armonica blues che a me fa impazzire, soprattutto se da base per un rap sciolto e veloce. Willie mi sembra molto agile nel muoversi su questo tappeto di suoni, mi sembra voglia anche dimostrare questo suo sentirsi a proprio agio anche avendo a che fare con materia complicata. Ci riesce. Finalmente un rap non banale ma ricercato, che prova a varcare i propri confini. Un rap che punta a tua nonna, infatti.
C’è qualcosa che non mi piace in questo disco?
Qualcosa c’è. Willie Peyote ti parla di talmente tanti argomenti che ad un certo punto fai fatica a stargli dietro. E poi Willie può osare di più, sia nel cantato che negli arrangiamenti: lui è uno che non ha paura, quindi deve rischiare di più, sempre di più, può essere più passionale, più incazzato, più viscerale e le musiche possono essere ancora più ardite. Io so che può farlo.
Il pezzo migliore del disco? Il gioco delle parti: esprime alla perfezione come mi sento nei confronti del mondo, della politica, del movimento femminista, dei centri sociali, dei rapporti umani, del posto di lavoro, dell’economia globale. La seconda più bella è in assoluto Le chiavi di casa. Commovente.
CREDITS
Produzione esecutiva 451. Produzione artistica Frank Sativa e Kavah. Direzione artistica di Frank Sativa. Registrato e missato da Peppe Petrelli, presso i Posada Negro Studios (I cani registrata e missata da Maurizio Borgna presso Andromeda Studio). Additional Production di Jolly Mare. Master di Simone Squillario per Hybrid Master. Ufficio Stampa e Promozione: Big Time. Booking: Antenna Music Factory. Feat: Roy Paci (Vendesi), Dutch Nazari (C’hai ragione Tu), Jolly Mare (Donna Bisestile), Giorgio Montanini (7 miliardi)
WILLIE PEYOTE – SINDROME DI TÔRET
(451, 2017)
1. AVANVERA
2. I CANI
3. OTTIMA SCUSA
4. C’HAI RAGIONE TU feat. DUTCH NAZARI
5. METTI CHE DOMANI
6. LE CHIAVI IN BORSA
7. GIUSTO LA META’ DI ME
8. PORTAPALAZZO
9. IL GIOCO DELLE PARTI
10. 7 MILIARDI (SKIT GIORGIO MONTANINI)
11. DONNA BISESTILE feat. JOLLY MARE
12. VILIPENDIO
13. VENDESI feat. ROY PACI