Recensione di Gustavo Tagliaferri
A volte la concezione di un disco metal non si concentra solo sul mero desiderio di seguire le proprie passioni, per le quali fare da sempre ciò che più si sente dentro, ma anche e soprattutto sul buttare giù le ideali fondamenta per una tipologia di linguaggio celanti molteplici affinità, non solo legate alla necessità di rifuggire da possibili cliché ma soprattutto tali da esplorare dimensioni che possano confarsi all’aria predominante. E’ soprattutto alla luce di ciò che va tenuto conto della valenza di un disco come quello in esame, poichè i romani Raspail, sapientemente avvolti dal mistero, sono l’equivalente di un monolite di origine sconosciuta che una volta precipitato sulla Terra accoglie chi ci si avvicina senza mai permettere che questi esca indenne, ma lasciandogli dentro una cicatrice assai significativa, e “Dirge” cova dentro sé, se non un segreto, certamente una rivelazione, quella di un linguaggio atipico i cui prescelti, Ianus, Israfil e Zeno, sono portatori e divulgatori. Se i Deafheaven di una simile modalità di espressione altrove risultano essere dei depositari dall’approccio un po’ meno glaciale, per quanto tutt’altro che distaccato dagli intenti della band, quest’ultima nell’arco di otto tracce lascia che emergano passo dopo passo le tappe di un possibile cammino affrontato in lande che portano con sé il nichilismo di certa Norvegia e il ripetuto succedersi di staticità e frenesia che in concomitanza rievoca una memoria anglosassone. Tutto questo alla luce del fatto che lo spirito di “Dirge”, favorito dal coinvolgimento dei singoli componenti in progetti come Klimt1918, Room With A View e Novembre, sia costituito da una formula fatta di doom e death metal, ma anche di richiami shoegaze e post-rock, sensazioni che non passano inosservate già dal sussurrio delle corde di chitarra prossime ad esplodere in sintonia con gli andamenti cadenzati sui quali Ianus si muove mantenendo, nel growl melodico portante, un livello vocale che è tanto tetro e cupo quanto pregno di forza interiore, già da quella The Wanderer che vive di un etereo senso di perdizione a sua volta inglobato dall’introspezione delle proprie liriche, lo stesso livello vocale che è tale da sfiorare d’improvviso anche lo screamo, come si evince dalla disperata eppur visionaria Ver Sacrum, in un contesto che è freddo come l’inverno che scorre nell’urlo imperituro di Vesevo, che porta a sé richiami di certo black di scuola 90’s, un po’ Mayhem ma soprattutto un po’ Dimmu Borgir del periodo “Stormblast”, ed anche la grinta e la determinazione del leone, con il suo ruggito, e del lupo con il relativo ululato, freddo come l’assassina batteria che traccia linea dopo linea l’avvenente senso di decadenza al centro di The Nymph’s Wood Hymn To The Rising Sun, freddo come il silenzio, concetto così apparentemente sconosciuto eppure tale da ripetersi attraverso dilatazioni che, in One Step More To The Void, sembrano quasi presagire un tuffo nella dimensione ambient, seppur, come da intenti dei primordi, con la totale assenza di elementi elettronici, soppiantati da qualche parentesi prog incattivita. A svolgere un’analoga funzione, seppur in un’ottica meno pessimista, sono anche la traversata su cui si basa la titletrack ferisce mortalmente con i suoi riff, che si portano appresso la malinconia di certe composizioni dei Lycia ma in un contesto tutt’altro che dark-wave, il sincero proclama di We Should Not Grieve, favorito da espedienti tipici dei Godspeed You! Black Emperor maggiormente spinti, mentre una possibile sintesi del tutto è probabilmente da ricercare nell’epilogo di Et In Arcadia Ego, il raggiungimento, con conseguente perdita di sensi, di un buco nero in musica dietro il quale trovare le note di chitarra di Israfil, così turbinose e lapidarie nei loro continui arpeggi, e persino un blast beat che nell’andare di pari passo con queste ultime trova la sua espressione massima e chiude assai degnamente il sipario di un’esperienza lunga ed intensa. Che ci si trovi di fronte ad un sogno diventato realtà non è affatto un caso, visto il tempo che si è concesso alla relativa lavorazione: “Dirge” è il sunto di quanto quel sogno sia stato condiviso con le unghie e con i denti, cesellato senza cedere a qualsivoglia mania di perfezionismo, che denota come l’esperienza dei Raspail sia stata assolutamente necessaria per sé e per la stessa corrente metal, che mai come ora necessita tanto di innovazione quanto di un bisogno di espressione che non sappia troppo di già sentito. Un canto funebre che tra le righe nasconde la fine, ma forse anche un nuovo inizio.
Ad Andrea Flavioni.
Raspail – Dirge
(2016, Sick Man Getting Sick Records)
1. The Wanderer
2. The Nymph’s Wood Hymn to the Rising Sun
3. Vesevo
4. Dirge
5. One Step More To The Void
6. We Should Not Grieve
7. Ver Sacrum
8. Et in Arcadia Ego