Live+ Photo report di Laura Faccenda
Li avevamo attesi e desiderati tanto. Un inverno ed un’estate ad aspettare l’annuncio, arrivato lo scorso 3 novembre alla conferenza stampa ufficiale del Firenze Rocks. Ho avuto la fortuna e l’onore di ascoltare in diretta, all’interno di una delle sale di Palazzo Vecchio, quelle parole: “L’edizione 2018, il 14 giugno 2018, si aprirà con una band nata a Seattle nel 1994… I Foo Fighters!!!”.
Ieri, in 82.000, eravamo tutti lì per loro. Qualcuno fremeva particolarmente: doveva saldare un conto in sospeso risalente al 2015, quando alcune date erano state cancellate poco prima o addirittura il giorno stesso dell’appuntamento con la band, a causa dell’ormai famosa frattura della gamba di Dave Grohl. Forse per uno scherzo del destino o per una coincidenza (a cui ormai non credo più), il concerto, dopo l’immancabile grido di battaglia del frontman: “Are you ready??? Are you fuckin’ ready????” ai fan già in estasi, lontano dal ricordo del trono di chitarre, si è aperto proprio con Run. Un’onda umana si è creata e riversata in direzione del palco, con l’obiettivo della transenna, per tutta la durata dei primi pezzi. Come poteva essere altrimenti, data la successione di All my life, Learn to fly e The pretender? Una scaletta costruita, infatti, sulla passione e sull’esperienza della “vecchia guardia”, dei fan di lunga data. È lo stesso Dave Grohl a confessarlo: “Questa sera ci sono molte persone che ci seguono da sempre. Da ventitré anni. Ecco, loro conosceranno sicuramente questo brano. Gli altri, i nuovi fan…beh…osservino e imparino da loro”. È stata annunciata così My hero, proprio mentre l’eroe di tutti noi era lì sul palco a cantarla, a correre prima a destra e poi a sinistra (chissà quanto gli sarà mancata la passerella…), a scuotere i capelli lunghi sulla Gibson azzurra, diventata ormai un segno di riconoscimento.
E che dire di Taylor Hawkins? Il batterista con il carisma da frontman a cui il “direttore d’orchestra” ha affidato il palco per un bel pezzo. Dalla pedana della batteria elevata al cielo, si è sprigionata una scarica ritmica senza eguali a conferma della teoria di molti sul fatto che questo ragazzo con l’aria da surfista sia il miglior batterista in circolazione. Il suo momento di gloria è continuato quando ha impugnato il microfono su Under pressure, cover dei Queen. Un grande voce ma soprattutto un frame indimenticabile che ha visto il ritorno di Dave Grohl alla batteria. Il suo tocco incomparabile… Così la suona solo lui. Ed è stato davvero come tornare indietro nel tempo: l’intersecarsi delle immagini e dei colori sugli schermi è corso lungo un brivido. Un ragazzo biondo che cantava… capelli corvini che agitavano sui rullanti…
Uno degli aspetti che rende questa band così incisiva è la valorizzazione di ogni singolo componente. Tutti hanno uno spazio per il proprio assolo. Rami Jaffee, alle tastiere, si è lanciato nell’inconfondibile intro di Imagine di John Lennon. Quasi un dejavu per chi, nella scorsa edizione, aveva assistito al concerto di Eddie Vedder. Invece no. Con un’espressione compiaciuta e divertita, Dave, su quelle note, ha preferito cantare Jump dei Van Halen. Dopo l’omaggio ai Ramones da parte di Pat Smear, è arrivato il turno del bassista Nate Mendel, il più timido e riservato della band tanto che da sempre si rifiuta di autocelebrarsi negli assoli. Ieri sera, però, è stata trovata una soluzione… Alla domanda: “C’è un bassista qui?”, ecco uscire dal backstage Duff McKagan… e poi Slash e poi Axl Rose. Il boato del pubblico della Visarno Arena ha reso giustizia ad un momento leggendario: Foo Fighters e Guns n’ Roses, insieme sullo stesso palco. Una versione indimenticabile di It’s so easy, una sorpresa celata in quelle tre iniziali, “I.S.E”, scritte sulla scaletta.
Picchi di emozione continui. Adrenalina sempre a livelli massimi. Perché quando puoi rilassarti, è Mr. Grohl a dirtelo: “Siete veramente rock ‘n roll… Tanto rock ‘n roll… Troppo?Naaah… Ma ora respirate un attimo…”. Probabilmente è stato questo l’attimo più emozionante. Wheels eseguita in acustico, con un minimale e dolce accompagnamento. L’essenzialità che permette di concentrarsi su ogni verso. Avere quasi la percezione visiva di quella ruota che gira, di tutti gli alti e i bassi, del movimento circolare della vita… la stessa vita che ha condotto tutti fin lì, ad ascoltare le parole grazie alle quali abbiamo fatto un altro giro, ci siamo messi alla prova, non ci siamo arresi anche quando tutto sembrava finito.
Alla soglia delle due ore e mezzo, con Best of you sembrava essere arrivato il gran finale. A dare il via al coro di “Oooooh ooohh ohhhh / Ohhhhh ohhh ohhh” che, immancabilmente, viene intonato dai fan, è stato proprio un ragazzo dietro di me. In un secondo, tutta l’arena cantava all’unisono.
No, non è finita qui… e soprattutto il bis non è stato come i classici bis. A luci ormai spente, ecco illuminarsi lo schermo all’interno del rombo di Concrete and Gold. Dal backstage, Dave Grohl, in presenza di Axl Rose e Taylor Hawkins, si è rivolto direttamente al pubblico, comunicando a gesti e assumendo espressioni degne di un attore di Holliwood. È davvero unico nel suo genere. Come unica è stata la scenetta con la figlia Harper, alla quale il padre ha chiesto: “Facciamo ancora due o tre canzoni?”. Tre, indicano le dita alzate dalla piccola che, dopo un botta e risposta ha la meglio sul papà.
Eccoli di nuovo sul palco, perché “Quello che Harper chiede, Harper ottiene…”. E le abbiamo desiderate tutti quelle canzoni tre canzoni. Lo spettacolo è terminato con le immancabili Times like these, This is a call, primo singolo in assoluto della band, ed Everlong, gran classico di chiusura.
L’applauso è durato all’infinito, tra i sorrisi e le lacrime. I Foo Fighters, una volta appoggiati gli strumenti, si sono riuniti in un abbraccio, si sono inchinati, hanno ringraziato per tutto il calore. Il primo a non credere ai suoi occhi è stato proprio Dave Grohl, l’ultimo ad uscire di scena dopo un bacio lanciato a tutti i suoi fan. Lui che continua ad essere il simbolo di chi ha riposto fiducia in una missione, in un progetto, nonostante tutto, oltre tutte le difficoltà. Lui che è simbolo di quel rock che viene continuamente spacciato per morto ma che, invece, vive nelle chitarre distorte, nei bassi e nelle batterie che suonano a colpi di battiti del cuore. Lui che è rockstar, musicista e prima di tutto uomo, amico, padre e autore di quei testi in cui tutte le 82.000 persone presenti ieri si sono riviste almeno una volta.
A fine concerto, ho ripensato subito ad una frase di Wheels: “Well I wanted something better, man /I wished for something new / And I wanted something beautiful and wished for something true”.
Perché qualunque cosa per essere bella deve essere anche vera. Ed il sogno che abbiamo vissuto ieri è stato incredibilmente e umanamente autentico.