Rubrica a cura di Francesco Liberatore
Lo stato di salute della scena alternativa italiana? Di certo non è quello presentato da riviste ed emittenti radiofoniche che sfiorano il patinato o impongono playlist comandate dalle etichette. Per cercare di capirne qualcosa è giusto andare più a fondo, al di là della coltre di ciò che è cool o di quello che “piace alla gente che piace”. Come una sonda, questa rubrica estrapola suoni e nuovi fermenti dall’underground italiano per segnalarvi alcune dei dischi ed Ep tra i più interessanti. Giusto al fotofinish, ecco la selezione di giugno dopo un lungo setacciare tra le tante proposte arrivate nella nostra posta.
Saremo pure dei nerd ma fidatevi che ci si diverte di più! Check it out.
GUALTY – Transistor (Red Cat Records)
Dapprima progetto solista del cantante Simone Tilli con cui pubblica l’esordio Volume 1 e il successivo Roba dell’altro mondo, oggi una vera e propria band composta da Marco Zaninello (batteria), Antonio Inserillo (basso) e Michele Senesi (chitarre) a completare l’organico. I GUALTY hanno collocato tutto il loro spettro sonoro su coordinate post-punk/wave geolocalizzando con precisione le massime influenze della band: siamo al crocevia tra Firenze e Manchester per intercettare le pulsioni dei primi Diaframma da una parte, e la lectio magistralis di Joy Division dall’atra. Ascoltando Transistor è subito chiaro come, a differenza delle band emerse dalla corrente Nu new wave che ha infiammato i primi anni 2000 (Editors, Interpol, Bloc Party, White Lies), i GUALTY siano devoti seguaci del verbo originale, perché ne ricalcano chiaramente lo stilema piuttosto che muovere da lì verso un suono più contemporaneo. Ne risulta un disco fortemente rétro dove troviamo tutto il campionario di stile che ha reso celebre quel movimento; la stessa interpretazione di Simone Tilli, seppur notevole, è fin troppo figlia di un’estetica che è stata firma d’autore di Fiumani e Pelù. Un peccato, perché questa scelta sulla lunga distanza non premia la bruciante urgenza comunicativa del disco giocata spesso sulla provocazione (Villaggio morte, Transistor) e su un immaginario fantasy-noir (Try Vega). Asciugando l’insieme potrebbero trovare nell’immediatezza un nuovo modo di esprimersi. Ma forse per loro è più importante restare fedeli alla linea.
DA TENERE D’OCCHIO PER JUST KIDS!
I Fiori di Mandy – Carne (autoprodotto)
Restiamo in territori post-punk anche per introdurre il nuovo Ep de I Fiori di Mandy, trio sardo proveniente da Oristano. Qui l’estetica si spoglia di wave per lasciare spazio alla scarna essenzialità di un suono costruito su basso, chitarra e batteria di indubbia estrazione punk. Se c’è un pregio che emerge da questa seconda prova della band è quello di saper plasmare il proprio minimalismo e di metterlo al servizio di una drammatica teatralità, caratteristica che si palesa anche nei testi e nell’interpretazione del cantante Edoardo Mantega. Questa forte componente art li porta a spezzare i ritmi con vuoti improvvisi, cambi repentini e tempi sincopati, dove emerge dirompente la voce a raccontare un senso soffocante di violazione della propria quotidiana esistenza. Il primo singolo estratto Invadare rappresenta un sunto di tutto questo, anche se il meglio arriva con In Virtù Del Piovere: una mini-suite che afferra in partenza un tempo balcan per poi trasformarsi in un funk nevrotico, rallentare in una murder ballad, tornare funk e infine dissolversi lenta fra tribalismi e rivoli di parole. Lontani dalle tendenze e dal superficiale senso comune che infesta il panorama indipendente italiano, I Fiori di Mandy scavano in profondità il senso della vita attraverso l’arte e lo fanno a modo loro, scrivendo la propria storia con la sfrontatezza e il piglio di chi non ha nulla da perdere. Era questa o no la lezione del punk? C’è ancora speranza per l’alternative rock italiano.
MIGLIORE USCITA PER JUST KIDS!
Lennard Rubra – Escapismo Primaverile (Floppy Dischi)
Riccione, una cameretta con finestra che affaccia sul mare: si aprono le persiane e per un attimo pensi sia l’Adriatico, poi entra entra la voce di Lennard Rubra su Uranio ed è subito West Coast: colori sovraesposti, ragazze in shorts, palme altissime e surfisti pronti a sfidare le onde del Pacifico. D’altronde, se è di escapismo che vivono questi brani, quale altro luogo possono evocare per una fuga dalla realtà se non le spiagge di Malibù? Provate ad immaginare i californiani Ty Segall e White Fance che si sparano qualche birra e una cannetta in garage prima di lanciarsi in una jam senza mai premere il pedale del fuzz e avrete un’idea più chiara del contesto. Ma il giovane artista emiliano all’abbronzatura su misura e ai cocktail in riva ha preferito l’intimità della sua stanza (Telemachia) dove ha musicato con intelligente ironia la propria malinconica prospettiva sulla riviera romagnola (La Stagione). Un riquadro tutto homemade che declina il pop in psichedelia grazie ad un evidente talento compositivo: dall’open track passando per la scintillante Saudade i brani scorrono con piacevole gusto lo-fi – senza mai macchiare il sapiente lavoro sugli arrangiamenti – fino alla crepuscolare ballata Pina Bausch che chiude l’Ep. Dritto nella nostra playlist di stagione.
NEROFILMICO – La luce che verrà (autoprodotto)
Hanno alle spalle 2 Ep autoprodotti i NEROFILMICO e questo mini-album La luce che verrà rappresenta la prima prova di maturità per il trio romano. I ragazzi ne hanno mangiata di polvere sui palchi e la coesione che gli ha donato l’esperienza si sente tutta: chitarra, basso e batteria formano un solido assetto punk-rock che si muove tra accelerate e brucianti stacchi strumentali, tutte al servizio di melodie innodiche. Rispetto alle loro precedenti uscite, qui c’è sicuramente la premessa di un approccio più attento in fase di composizione, una ricerca non scontata di muoversi oltre i due poli di attrazione Foo Fighters/Ministri, per dirla tutta. Lo dimostra bene il miglior brano del lotto Imperi Infranti, forte di un dinamica davvero ben strutturata (per quanto classica, appunto) e dell’ispirata prova lirica e vocale del cantante Marco Caudai, bravo nel guardare oltre la propria dimensione esistenziale per gettare luce su mondi distanti e soggiogati da poteri meschini. Funzionano altrettanto bene Nuove Considerazioni e Mesta Metà con le quali potrebbero tranquillamente duellare contro FASK e Voina conquistando i favori del loro pubblico. Meno convincente la prova su Gli anni delle forti ideologie che li aggancia fin troppo ai modelli di cui sopra. Senza pretese di innovazione ma guidati da autentica passione, i NEROFILMICO sono pronti per palchi ben più grandi di quelli che hanno affrontato finora.
SABBIA – Kalijombre (KONO DISCHI/LA MANSARDA)
La libertà creativa che ha ispirato la composizione di questi sei brani pervade e trasuda in ogni singolo momento del secondo lavoro in studio dei SABBIA, quintetto piemontese composto da Gabriele Serafini (chitarra), Alessandro Finotello (basso), Marco De Grandi (batteria), Giacomo Petrocchi (sassofono) e Andrea Bertoli (tastiere), già nel buon occhio della critica con l’omonimo esordio dello scorso anno. Kalijombre è la naturale prosecuzione di quel primo esperimento, arricchito da una consolidata maturità artistica e da un’idea compositiva ancora più bastarda nel suo svincolarsi da un copione prestabilito. Infatti, a differenza del precedente Ep che intesseva strumentali di psichedelia e space-rock partendo da una matrice stoner, Kalijombre impreziosisce la dinamica del gruppo con composizioni di più ampio respiro figlie di lunghe jam session, oserei quasi jazz nel loro modo di evolvere su una struttura circolare verso il pathos lirico – provate ad ascoltare Elefanti (in via Lamarmora) o 118 . I ragazzi sono stati abili nello sfruttare tutto il potenziale delle tastiere e del sax, qui maggiormente in primo piano rispetto al passato, ma senza dimenticare le sferzate elettriche che sottendono al loro stile personale (Manichini, A spada tratta). I SABBIA sintetizzano l’urgenza blues che rese unici i Morphine con digressioni dichiaratamente legate alle Desert Session dei QOTSA consegnandoci un disco perfetto per fare da colonna sonora ad un pulp-noir tarantiniano e che dal vivo promette di trasformarsi in qualcosa di ancora più eccitante e imprevedibile.
Speaker Cenzou – BC20 Director’s cut (Mandibola Records)
Sono passati vent’anni dall’uscita del primo disco rap prodotto nel cuore di Napoli. Il Bambino Cattivo di Speaker Cenzou fu il primo atto di rivendicazione da parte di un intero movimento che emerse nutrendosi via via di esperienze, nuove influenze e linguaggi cambiando infine la storia dell’hip hop cittadino e, in parte, quello italiano. Un album-manifesto che ha continuato nel tempo a rappresentare un punto di riferimento stilistico per gli scugnizzi della nuova scena rap napoletana legando indissolubilmente il presente al passato. Ora, a distanza di vent’anni anni, Speaker Cenzou chiama a raccolta vecchie e nuove leve dell’hip hop per celebrare quello che lui stesso definisce «il disco ponte tra tutto quello che è stato e tutto ciò che verrà». BC20 Director’s cut assume così un doppio valore: restituisce linfa ad un disco fondamentale con 9 remake di brani originali (rimanipolati nelle produzioni e nelle liriche) e l’aggiunta di 6 inediti; al contempo scatta una panoramica sullo stato attuale della scena con l’obiettivo di fermare il momento per mettere in primo piano le promesse (Dope One, The Essence, Mama Marjas, Daryo Bass e molti altri) fianco a fianco con i pesi massimi (Ensi, Ghemon, Clementino, Rocco Hunt, Tormento per citarne alcuni). Ne viene fuori un disco che è molto più di un tributo fine a se stesso, piuttosto l’invito ad un nuovo slancio creativo rivolto con generosità ed orgoglio alla propria comunità artistica. Prendendo in prestito un termine giornalistico, direi un vero e proprio report che prosegue il racconto di una realtà in costante mutazione e orgogliosa di riaffermare la propria consapevolezza di strada.
DA TENERE D’OCCHIO PER JUST KIDS!
Today’s Inmates – No Man’s Land (autoprodotto)
Che legnata questi ragazzi dalla provincia di Cuneo! Personalità, esecuzione di livello e grinta da vendere: i Today’s Inmates sono giovanissimi eppure con la scorza di chi plasma la materia heavy da una vita. Si parte da una base southern rock impressa in calce su granitici riff hard che infiammano brani come War Paint e Law’s for Animal per poi declinare il sound verso squarci melodici di chiara matrice grunge (No Man’s Land). Questo debutto impressiona per la messa a fuoco e la solidità delle idee che sostengono ogni canzone, un elemento non da poco considerando l’età dei componenti della band; a questo aggiungete un autoproduzione efficacissima nell’imprimere forza al suono e vi apparirà chiaro il talento che ribolle dentro queste dieci schegge. Filippo Uberti (chitarra), Edoardo Sciandra (basso), Matteo Borgna (batteria) sono musicisti tecnicamente ineccepibili, ma la menzione d’onore va al cantante e chitarrista Mattia Rebuffo autore di una prova di carattere, capace di ergersi sopra questo tsunami heavy senza affondare, bravo nel levigare con misura le melodie e a valorizzare le asperità evitando di strafare sfruttando la sua pur ottima estensione (Will You Kill). Ho la sensazione che ci sia la buona stella di Cornell a guidarlo, ma non è un pedissequo tentativo di imitazione quanto più il risultato di uno studio attento della dinamica vocale che ha reso epiche le esecuzioni dei Soundgarden (tra quelli di Seattle sicuramente il gruppo che più ha influenzato questi ragazzi). Con queste premesse vederli dal vivo potrebbe essere un’esperienza esaltante!