Recensione di Gustavo Tagliaferri
Torino, a volte, ha sfumature solo apparentemente impercettibili, riscontrabili una volta ceduto al desiderio di spingersi oltre rifuggendo da ogni provincialismo. Strane visioni, tipiche di un sogno ad occhi aperti neanche troppo distante da un immaginario più surreale che orrorifico, scenario principale di un racconto che vede più di un personaggio incespicarsi tra aperture fatte di riff battenti, speroni squillanti, fischettii beffardi e chiusure in cui, in un continuo crescendo il cui La è dato da una singola chitarra acustica, ci si ritrova in buona compagnia durante l’uscita di scena. Sad Dolls & Furious Flowers, senza casualità alcuna, due estremi opposti che fanno da becco e da fanalino di coda non ad un’automobile, ma ad un barcone: i Dead Cat In A Bag, di base, sono un trio, ma considerato il loro forte impatto sembra che abbiano dentro la forza di un’ingente ensemble che man mano fa sfoggio di un arsenale ottimamente calibrato, nel tragitto che da Lost Bags li ha visti giungere a Late For A Song e ai giorni nostri approdare a questo terzo full length.
Nel momento in cui si ha a che fare, in primo luogo, con una voce profonda, oscura eppur nervosa come quella di Luca Swanz Andriolo, reduce da una parentesi di reinterpretazioni di repertori altrui altrettanto interessante, pubblicata come Swanz The Lonely Cat, la sensazione di cattura, di ipnosi, di un cuore che viene strappato dal petto e stretto a sé uccidendo eppur estasiando i qui presenti, non tarda a realizzarsi, in quanto fulcro principale di un’esperienza assai versatile che porta a ballare un tango od un valzer in un’atmosfera non abbastanza dark per richiamare le murder ballads, troppo cosmopolita per non avere felici richiami a certa Francia e alle movenze gitane che trovano riscontro in un violino agitato ed esagerato tutt’altro che fuori contesto, tutte componenti che in Promises In The Evening Breeze capitano a fagiolo e non sono da meno neanche quando a farsi avanti è un suono un po’ più blues, quello di Mexican Skeletons, pervasa qua e là, tra una fisarmonica e l’altra, da decadenti distorsioni, figlie di quella piccola ma grande orchestra che trascende dal solo repertorio base apportando una lezione che è presente in maniera maggiormente marcata anche nel cupo rock di Thirsty, sbornia tex-mex che, tra continui squarci di corde di contrabbasso, prende il suo tempo per esplodere nelle dovute circostanze; un blues che è tale da sconfinare in un delirio mariachi misto a litania corale, lo stesso che in chiave eterea e provvisto di una certa maestosità anima Not A Promise, che parte come soliloquio ridotto all’osso per pianoforte che male non starebbe in bocca a Nick Cave, a Leonard Cohen od a Tom Waits, per poi proseguire con un cadenzato andamento jazzy che fascinosamente sfocia in dei Calexico sorpresi in fase rem, con evidenti connotazioni dreamy, ma anche Kurt Wagner e Bill Callahan sembrano giocare un’analoga partita tra le ispirazioni di Swanz, poiché i loro influssi sono di ispirazione a The Place You Shouldn’t Go, che a mo’ di banjo solca le vie del country ed oltrepassa quella linea tra folk e tradizione classicheggiante, anche devota a Napoli a suo modo, presente nella strumentale Muneca, per non parlare della scuola dei migliori chansonnier, della quale ci si fa capo durante il subacqueo e cameristico, con annesso theremin, excursus di Le Vent.
In piena antitesi con un mood simile è l’evoluzione di Waste (Dirty Three e Rachel’s alle prese con idee ambient? Chissà), che anticipa danze sfrenate che vedono il relativo zenith grazie alle intrusioni elettroniche che pestano in quel di The Voice You Shouldn’t Hear, la ciliegina sulla torta che segna l’esistenza di un ponte levatoio tra analogico e tecnologico, dove il folk diviene avanguardistico ed a mo’ di tinte industriali distorce la lezione dei Les Negresses Vertes di Zobi La Mouche elevandola all’infinito, ed in un contesto in cui non sembra mancare proprio nulla che non possa essere all’altezza delle capacità della formazione torinese irrompono anche un paio di rivisitazioni di alta caratura, da una Venus In Furs oramai sì reinterpretata più e più volte e comunque sempre all’altezza e che anche stavolta non fa eccezione, un Lou Reed e dei Velvet Underground rimaneggiati melodicamente e resi a cavallo tra lo struggente, il beffardo e l’incalzante, a giudicare dai fiati situati in conclusione, a The Clouds, tesa e disperata trasposizione delle liriche di Pier Paolo Pasolini e dell’interpretazione di Domenico Modugno che hanno forgiato Che cosa sono le nuvole anni addietro.
Una forza espressiva che, probabilmente, non verrebbe immediatamente compresa in quanto appartenente ad un linguaggio alieno, di questi tempi, e ciò è un vero peccato, ma ciò non annulla l’oggettivo valore di un disco simile, un lavoro sensazionale e sconvolgente, forse l’apice raggiunto in anni di attività dai Dead Cat In A Bag, sicuramente la decisiva conferma di una formazione il cui approccio rompe molti schemi e senza occhieggiamenti giovanilistici e talent-uosi alcuni dà ulteriore lustro ad una Torino che non si è mai tirata indietro quando si tratta di proporre realtà che fanno la differenza. La bellezza dell’ignoto.
Dead Cat In A Bag – Sad Dolls & Furious Flowers
(2018, Gustaff Records)
1. Sad Dolls
2. Promises In The Evening Breeze
3. Thirsty
4. Not A Promise
5. Muneca
6. The Voice You Shouldn’t Hear
7. The Place You Shouldn’t Go
8. Waste
9. Le Vent
10. Venus In Furs
11. The Clouds
12. Mexican Skeletons
13. Furious Flowers