Live report di Laura Faccenda
Photo report di Antonio Viscido
Ho avuto il piacere e l’onore di intervistare Francesco Motta in un momento particolare. Avrei dovuto incontrarlo prima del live alla Fortezza del Basso di Firenze, l’ultima data del tour di Vivere o Morire. In realtà, tra un impegno e l’altro, la location è diventata quella incantata di Palazzo Vecchio, il giorno seguente. Il soundcheck in acustico, tra luci soffuse e opere d’arte, per l’intervento al Wired Next Fest… ed eccoci pronti. Il sorriso accennato di chi non ha timore di raccontare le proprie emozioni, di chi ha raggiunto una tappa in più e si guarda indietro, per un attimo. Lo sguardo speciale di chi sfoglia un album di foto ricordo, con altrettante pagine bianche. Da riempire. Da scrivere. Da cantare.
Quando è uscito Vivere o Morire, sono rimasta stupita dal coraggio che portava con sé questo titolo. È una scelta precisa tra i due più grandi estremi della nostra esistenza. Che cosa racchiude questo aut-aut?
In realtà, non è un aut-aut perché alla fine il compromesso ci deve essere. Nel mio caso, era analizzare il mio passato focalizzando le scelte giuste, le scelte sbagliate, le cose di cui ero contento e le cose di cui non ero contento… e che non potevo cambiare. In qualche modo, i due opposti sono i due elementi che generano il movimento ed era questo che volevo esprimere. È un titolo in continuo movimento anche per me, dato che oggi, a distanza di qualche tempo dall’uscita, ci vedo altro.
Nel brano Per amore e basta appare, infatti, la parola compromesso: “Un perfetto compromesso per la mia terza vita”. Quali sono state le tue due vite precedenti?
In quel testo lì, come un po’ è successo in Del tempo che passa la felicità, c’è un parallelismo fra l’innamoramento e il modo in cui mi sento quando scrivo le canzoni. In entrambe si parla d’amore ma si parla anche di scrittura. È abbastanza autoreferenziale. Forse la mia prima vita musicale riguarda il periodo in cui c’erano delle persone, i miei miti, che erano più importanti di mio padre e mia madre. La seconda vita è iniziata quando ho iniziato a fare il musicista anche io. E la mia terza vita, che è questa, è quando ho capito che mio padre e mia madre sono più importanti di tutti i miti che ho avuto. Così dividerei le mie tre vite musicali.
L’album non è un vero e proprio concept ma delinea un percorso ben preciso. La direzione è segnata dalla ricerca di un equilibrio…
Non ho mai capito la definizione di “concept”. Da una parte, nell’album è presente perché c’è un racconto con un inizio, uno svolgimento e una fine. Negli ultimi anni, non siamo più abituati ad ascoltare i dischi per intero… forse non lo faccio più nemmeno io. Mi piacerebbe, però, che si ascoltasse tutto perché ogni canzone ha senso di esistere in quanto prima dico una cosa e dopo ne dico un’altra. Prendi la prima traccia e l’ultima. Sono quasi opposte sia dal punto di vista musicale sia da quello testuale. E a quella sintesi ci sono arrivato attraverso tutte le altre canzoni.
Quindi la scrittura, unita alla musica, può essere considerata una sorta di terapia?
Sì. Tutto è partito da un’autoanalisi intrapresa al termine del tour de La fine dei vent’anni. Non stavo bene, avevo bisogno di tranquillità, di silenzio. Il minuto “musicale” della prima traccia rappresenta quello: il silenzio che c’è stato in quel periodo. Per tre settimane sono stato dai miei senza dire una parola. Da lì ho ripercorso la mia vita, passo dopo passo, come non avevo mai fatto fino ad allora.
Sull’artwork del disco c’è sempre la tua immagine, ci sono sempre due colori. Che cosa ha determinato il passaggio dal bianco e nero al rosso e nero?
Vivere o Morire parla tanto di amore. Ad un certo punto è stata fatta una foto rossa e lì ho capito che sarebbe stato quello il colore dell’album. Rispetto a La fine dei vent’anni c’è anche un’altra differenza. Abbiamo fatto la foto con un’esposizione di quindici secondi per dare l’idea del movimento. Mi sento molto più in movimento ora. E poi c’è da dire che si vede palesemente che sono invecchiato…bene o male non si sa. Sono passati comunque due anni e vorrei che l’invecchiamento fisico andasse sempre avanti con l’invecchiamento musicale. Non mi piace assolutamente chi vuole fare il giovane per forza tutta la vita, non la vedo come una cosa interessante.
Nelle tue canzoni compaiono anche riferimenti geografici. Si parla di città, si parla di “mettere la vita in una valigia”. Qual è il tuo rapporto con il viaggiare?
Mi piace tantissimo. Ho avuto la fortuna di farlo più negli ultimi due anni, per una questione esclusivamente economica perché da sempre amo viaggiare. Penso che sia importantissimo all’interno delle esperienze che si possano collezionare. Ti metti in gioco… e quando ti metti in gioco e sei pronto a cambiare idea… sei pronto anche a prendere quello che non sei. Avere a che fare con il diverso. Un discorso che, in questo periodo storico, sembra completamente assurdo. Ma è nutriente avere a che fare con il diverso. Un po’ come dicevo prima… crea movimento perché entri in contatto con quello che non hai.
E invece che cosa ti manca di più della “vita a casa” quando sei in tour da tanto tempo?
La mia vita si basa su andare via, tornare, stare in tour e entrare in studio di registrazione. È una vita pallosa, ma mi diverte. Quando sono a casa mi piace, a volte, stare un giorno senza fare assolutamente niente. Quello mi porta a scrivere. Quando sono in viaggio non mi riesce per niente scrivere, quando torno sì. Devo stare nella stessa casa per cinque giorni, guardare il computer con le tracce vuote di Pro Tools… da lì mi viene voglia di scrivere. Ho bisogno di tranquillità, ho bisogno di ordine, anche fisicamente. E anche se nessuno se lo aspetterebbe mai, mi piace scrivere soprattutto di mattina. Per questo faccio pochi dischi. Perché mi sveglio poche volte di mattina presto (ride).
Parlando di casa, mi viene in mente la parola famiglia. Durante il live di ieri, su Mi parli di te hai chiesto che si facesse silenzio perché “è qualcosa che riguarda la mia famiglia”. È possibile scorgere in quel dialogo intimo tra te e tuo padre anche un confronto generazionale? L’apertura di una generazione, quella prima della nostra, che non si è mai lasciata andare troppo alle emozioni…
Credo che i vent’anni di differenza tra due persone portino comunque ad una distanza generazionale. È sempre stato così. Le distanze sono tante e si trasformano con il tempo. Il divario che ci può essere tra un genitore e un figlio quando uno ha dieci anni e l’altro trentacinque è completamente differente da quando tu hai trent’anni e tuo padre sessantacinque. Quello che volevo esprimere è il capovolgimento di quella distanza. Io sono esattamente nel momento in cui si sta capovolgendo.
La data di Firenze alla Fortezza del Basso è stata l’ultima del tour di Vivere o Morire. Concludo l’intervista chiedendoti di terminare questa frase: “Ricorderò questo tour perché…?”
Ricorderò questo tour perché sicuramente c’è stata una maggiore responsabilità. Prima di Vivere o Morire, facevamo tanti concerti mettendo meno persone davanti. In questo caso, invece, ci sono stati meno concerti con più persone e in posti più grandi. Ho capito che per noi è importantissimo suonare. Per me è importantissimo stare sul palco… forse è una delle poche volte in cui mi sento veramente bene e libero. Quindi…il tour non è finito per niente.