Intervista di Gianluca Clerici
Il nuovo capitolo della storia di Fab è oggi. Esce “Maps for Moon Lovers”, un’autoproduzione che conclude il suo processo di master proprio agli Abbey Road di Londra. E dietro il suono rock di matrice americana c’è il romanticismo pop di un cantautore italiano che ha messo da parte l’amore e le visioni romantiche delle passate scritture (viste da un certo punto di vista) per dedicarsi all’osservazione della vita. Non che questa sia meno romantica ma dietro questo disco avvertiamo più rabbia e rivoluzione che un dogma di fede a cui arrendersi e consegnarsi. Un disco inglese, americano, un disco rock, una scrittura di lunga esperienza. In rete il video ufficiale del singolo “How high the Moon”.
Una mappa per gli amanti lunari (o della luna). Da dove nasce questo titolo? L’ho tradotto bene in italiano?
Esatto. Nasce da una profonda osservazione della realtà che ci circonda nel tentativo di scrutarla dall’alto, da una prospettiva apparentemente distaccata e neutrale. Le mappe cui allude il titolo sono i percorsi, spesso accidentati, battuti da personaggi al di sopra delle righe. Protagonisti imperfetti e romantici che provano a dare un senso alle loro esistenze in questi anni dominati da un disordine morale e spirituale. Inseguono la luce della luna e ne sono allo stesso tempo dominati.
Restando sul tema: un disco per sognatori che guardano oltre o per uomini concreti che combattono contro le illusioni?
Un disco per coloro che non hanno mai smesso di sognare nonostante le avversità di questi tempi. Sognatori concreti, oserei dire, che non rinunciano in nessun caso all’illusoria ricerca della fama. Ho cercato di costruire otto storie diverse, con otto protagonisti differenti. Ognuno terribilmente diverso dall’altro ma il comune denominatore lo si ritrova in questa smania di riuscire, e di farlo con urgenza.
Fab scrive questo rock da uomo innamorato o da chi deve liberarsi dalle catene che ha ai polsi (citando il video di lancio)?
A differenza di “Bless” non vi è’ un preciso riferimento a qualche episodio accaduto nella mia vita. Piuttosto ho preso molto a prestito dalla vita degli altri, ho ascoltato molto e provato a registrare avvenimenti. Un approccio quasi “letterario” che avevo in testa da tempo. Nel video di “How high the moon” il protagonista, in effetti, si libera da catene che gli stringono i polsi. Catene metaforiche, perché a volte una relazione può diventare qualcosa di simile ad una prigione dorata, e questo l’ho scoperto semplicemente osservando le storie e le vite di mille persone. Mi piaceva l’idea di affrontare a muso duro il lato “in chiaroscuro”dell’amore, che non è solo baci e parole dolci sussurrate prima di andare a letto, ma e’ anche fatto di rabbia e menzogne.
Il tuo rock l’hai portato ad Abbey Road. Come ci si arriva e soprattutto come ci si torna?
Ci si arriva solo con tenacia e determinazione, credendoci fino in fondo e pensando che il lavoro che stai portando avanti sia assolutamente degno di un luogo in grado di donargli la veste più consona. Abbey Road non è’ solo un luogo “fisico” ma un tempio della memoria e la soddisfazione di esserci arrivati e’ a dir poco enorme. Tuttavia lo ritengo solo un punto di partenza. Come mandare un figlio nella scuola più prestigiosa in città, alla fine suonata la campanella in strada dovra’ cavarsela da solo.
Che poi fin da “Bless” ci avevi abituato a questo clima inglese più che americano. Quanto sei legato a quella terra e perché?
L’Inghilterra mi fa sentire a casa, da sempre. Adoro quei suoni, quegli odori, certi paesaggi capaci di infondere allegria e malinconia alo stesso tempo. Sono cresciuto ascoltando musica britannica, U2, Depeche Mode, Joy Division, e poi dopo ho imparato ad apprezzare nuove band come Kasabian, Mumford and Sons e Artic Monkeys. Una scena sempre prolifica e mai a corto di idee.
Un faro nella notte in grado di darmi continuamente le giuste motivazioni e continui motivi d’ispirazione.
Per chiudere. Il rock d’autore oggi in Italia. Secondo te cosa ne è rimasto?
Tranne qualche raro caso direi che e’ una scena un po’ in affanno. Non apprezzo particolarmente la nuova corrente cantautoriale venuta fuori da quello che un tempo veniva definito indie. I testi, in particolare, non li trovo esaltanti. Se un concetto puoi dirlo in un altro modo, fallo. Io la penso così e provo a farlo nelle canzoni che scrivo, anche perché nella musica si rischia di dire tutti la stessa cosa allo stesso modo se si seguono in maniera ossessiva le regole imposte dal mainstream dominante. Quindi, se proprio devo fare un nome, mi rifugio ancora nei cari Afterhours, perché il modo di scrivere di Manuel Agnelli secondo me rimane ineguagliabile.