Recensione di Jacopo Lorenzon
La Musica, i Margini, il filo dei pensieri. Un delirio su Libero di Arturo Fracassa
La cosa bella delle canzoni è che, una volta regalate a chiunque abbia voglia di ascoltarle, si liberano dalla voce di chi le ha scritte, dalle sue mani e dalla sua testa. Mutano, crescono e si aggrappano alle emozioni di chi le fa proprie, di chi se ne impossessa. Può trattarsi di un brano che ci accompagna per una giornata particolarmente storta, per una vita intera o anche solo per un istante.
Chi vive di musica, chi della musica non può fare a meno lo sa: esistono, certo, parametri “oggettivi” (virgolette obbligatorie) che possono aiutare a dare una sorta di giudizio su una canzone. Si tratta di aspetti meramente tecnici: una voce limpida, insolita, espressiva; un arrangiamento originale, un’esecuzione strumentale virtuosa; parole scelte bene e che scorrono “nel modo giusto”. Tuttavia, accanto a questi e certo non meno importanti (anzi!), ci sono sfumature capaci di rendere speciale un brano in modo squisitamente soggettivo, e che ne segnano la portata affettiva in modo anche completamente casuale, imponderabile. È impossibile ricercarne le origini, e forse nemmeno necessario: quando una sequenza di note, un’espressione o anche solo una parola fanno presa in modo così violento, beh, è bello lasciare che ciò avvenga. Spegnendo il cervello e lasciando che la musica compia la sua magia in pace.
Tra le molte componenti di una canzone che giocano un ruolo fondamentale in questo processo misterioso, lo sappiamo tutti, c’è il testo. Il racconto, la storia o qualunque sia il messaggio che la canzone vuole (o vorrebbe?) trasmettere. Alcune canzoni nascono da uno strappo violento, in modo improvviso. Altre sono una dichiarazione sofferta e meditata a lungo, altre ancora un grido, un manifesto. Qualunque sia il loro contenuto, però, le canzoni – quelle belle, almeno – riescono, come si diceva, a trasformarsi a seconda di chi le ascolta. È forse questa capacità di cambiare colore a seconda delle differenti sensibilità che incontrano a renderle così speciali.
Ci sono casi, a seconda dei contesti, in cui questa mimetizzazione porta a leggere nei versi di un autore una molteplicità di interpretazioni magari lontanissime tra loro, e però – quando oneste – tutte ugualmente legittime. Rese tali dal fatto che ogni sensibilità, presa da sola, è la più autorevole. Almeno per – e nei confronti di chi la possiede.
La premessa è lunga e noiosa, lo si perdoni. La si ritiene eppure necessaria per cercare di parlare, con forse un pizzico di presunzione, di una canzone scritta da un cantautore che si chiama Arturo Fracassa. Un cantautore, a sentir lui, quasi per caso. Un artista che si è scoperto forse tardi, oppure che ci ha messo solo un po’ più di tempo ad arrendersi alla sua passione, a regalarsi la gioia di esprimere sé stesso. A regalare un pezzo di sé a chiunque abbia voglia di scoprirlo. Un dilettante? Nient’affatto. Un dilettante si improvvisa, e certo non scrive due album in poco più di un anno. Un dilettante non lavora con gente come Sala Velardo e Paolo Iafelice, non riceve da loro una simile stima. Arturo Fracassa è un Cantautore e la canzone di cui si parla qui è Libero.
Libero è un brano che parla di Arturo. Non solo: parla di chiunque senta la necessità di esprimere qualcosa, di mettersi in gioco mettendo in mostra un po’ della propria sensibilità, della propria visione delle cose. Parla di musica, di fare musica. Oppure di arte visiva, di scrittura, di recitazione. Parla di necessità e soddisfazioni. Parla di eredità. Di paure e coraggio. Di metterci la faccia. Di un sacco di cose estremamente complesse e irraggiungibili, oppure di una cosa sola, semplicissima e lampante. Perché no.
O forse a pensarci bene, proprio no, probabilmente. Perché in effetti Libero una storia ce l’ha già, ed è una storia molto più che degna di avere una canzone tutta per sé. Già: perché la canzone racchiude un’idea, un messaggio che è poi un messaggio di speranza. Libero è una di quelle canzoni che gli artisti scrivono raramente: una canzone scritta di getto, nata dalle ceneri rimaste dopo uno scoppio emotivo forte, improvviso e forse inaspettato. Sappiamo che Arturo Fracassa ha scritto quelle parole sopra lo sconforto di una perdita in qualche modo significativa. L’autore l’ha regalata alla memoria di Paolo Cereda, coordinatore della Associazione Lecco Libera, una persona che ha riversato passione ed energia in un’idea, un sogno. Un sogno di futuro e di libertà che si è incanalato, trasformato nella rinascita tangibile di un locale confiscato alla mafia e trasformato in un qualcosa di bello. Le circostanze che hanno dato vita alla canzone hanno portato quasi naturalmente Libero a partecipare al concorso Musica contro le mafie: si è trattato di una presa di posizione, di una voglia di alzare la testa e dare sostegno a chi non ci sta, di aggiungere una voce in più al coro di chi è stufo di vedere che intorno a sé le cose continuano a non cambiare.
Canzone politica, dunque? No. È un testo sì impegnato, certo, ma di un impegno trasversale. Le sue sono parole il cui significato si allarga per raggiungere chi ha bisogno di una spinta, chi spera in un incoraggiamento. Per chi non crede più che una risalita sia possibile, quale che sia stata la causa della caduta. Un Fiore può sempre nascere. Libero ce lo ricorda senza pietismo e in modo semplice ed efficace.
E allora, se Libero è già legata a filo doppio a questa interpretazione così forte, per quale motivo si dovrebbe scavare ancora? Perché rischiare di allontanarsi dal nocciolo della questione? In effetti cercare di forzare la mano di solito non ha molto senso: si finisce con il deformare le cose, forzando letture dove non serve. Eppure con Libero viene voglia di farlo lo stesso: già, perché è proprio una di quelle canzoni che finiscono con l’appartenere a chi le ascolta. D’altra parte, poi, che la canzone viva di vita propria e che porti un messaggio non necessariamente vincolato, ce lo ha confermato lo stesso Fracassa. Ognuno può leggervi quello che vuole, ognuno può sovrapporre quella caduta alla propria e vedere in quella rinascita una piccola speranza. In queste righe, però, quello che si vorrebbe provare a fare è altro: si vorrebbe, infatti, provare a leggere in controluce nei versi della canzone il cantautore Arturo. O ancora, ogni cantautore, ogni persona con la propria esigenza creativa. La persona che ha deciso di vincere timori, insicurezze e imbarazzi per regalarsi la musica. La propria musica. Come si diceva? Obiettivo presuntuoso? Un pochino sì. Una presunzione però a fin di bene: lo perdonerà anche lui, si spera.
Il fatto è che la musica è sempre, a un tempo, nascita e rinascita. È nascita quando la si scopre, quando la si lega alla indissolubilmente a ciò che di nuovo ogni giorno accade; è rinascita quando si trova in essa una nuova forma, una nuova lettura fino a quel punto sconosciuta o inconcepibile. E questo succede sempre. Tanto per chi la ascolta, quanto per chi la scrive: è sempre una nuova scoperta, che si tratti della scoperta di una nuova emozione dentro sé stessi, di un nuovo modo di guardare ciò che ci circonda o di un nuovo linguaggio. Un linguaggio che sorprenda e stupisca anzitutto sé stessi, prima ancora (e nemmeno necessariamente!) che gli altri.
Ogni spunto creativo è meritevole di stima, ogni tentativo anche abbozzato o impacciato di esprimere un’emozione va incoraggiato. Anche e soprattutto se intimo e senza velleità: è pur sempre una forma terapeutica forte. Certo, bisogna studiare. Certo, bisogna imparare, provare, sbagliare e rifare. Ma questo viene dopo. Prima arriva il riconoscimento di una necessità da soddisfare. Attenzione, a proposito: qui non si fa una valutazione di qualità o valore assoluto di una composizione. Questo è un discorso antecedente a quelle che possono essere l’effettiva resa artistica o l’accoglienza presso un pubblico più o meno ampio che sia.
Cos’è che rende così difficile trovare il coraggio di esprimersi? Cos’è che frena? Una risposta sola è impossibile da trovare: ce ne sono almeno mille, e mille diverse. Cambiano dentro a ogni persona che sia morsa dal bisogno di dire qualcosa. A prescindere dalla forma. Sostanzialmente, però, si tratta di paura. Paura di scoprire quello che si ha dentro, paura che non ne valga la pena o che, in fondo, guardarsi dentro non sia poi tanto bello. O ancora: vergogna. Vergogna che porta ad abbassare la voce, a nascondersi da uno sguardo altrui sempre pronto a giudicare in un modo che è troppo sbrigativo e diffidente per riuscire a non essere velenoso. Tutto questo, troppo spesso, condanna ad un silenzio che nasce nella prudenza e finisce troppo spesso in vigliaccheria. Avere paura, ascoltare il silenzio/ pensare che forse non ha tutto un senso/ […] restare nei margini che impone la mente. Già, i margini. Limiti autoimposti, i freni più difficili da rimuovere. Probabilmente non sono quelli di cui stiamo parlando i margini che Arturo Fracassa ha scelto per il titolo del suo secondo album (La vita dentro i margini, appunto), ma quei pochi versi sanno definire perfettamente ciò che prova chi si trova in quella situazione. Chi sente, in qualche modo, che è vietato sognare, che esiste sempre un ricatto, un pregiudizio. Che in fondo forse è meglio non far sapere davvero chi sei. Di nuovo: il delirio interpretativo potrà essere anche difficile da seguire, e forse anche miope. Sta di fatto che trovare il coraggio di fermare quello che si ha dentro, metterlo nero su bianco e farci i conti non è certo cosa facile. Può apparire anzi estremamente difficile, forse anche impossibile; può far soffrire parecchio, perché significa mettersi a nudo, spogliarsi di convinzioni o idee fissate e impolverate. D’altra parte, però, quando ci si riesce ci si rende conto che si tratta dell’unico modo per raggiungere una vera e propria liberazione. Magari effimera e momentanea. Perché la ricerca non finisce mai: bisogna sempre andare avanti ancora, e ancora. Però magari l’unica soluzione per farlo può essere proprio Fermarsi ogni tanto, scoprire chi sei.
Il Cambiare colore, uscire dai margini diventa quindi il punto di partenza e di arrivo insieme: il percorso è lungo, tortuoso probabilmente non finirà mai. È però un percorso che deve essere affrontato, è l’unico modo che si ha per potersi dare una possibilità di Scoprire chi sei. La fatica che si fa è enorme e dolorosa, e prezzo del biglietto molto caro: per partire si richiede il coraggio di Spostare in alto l’equilibrio. Di tirar fuori la voce e dare dignità a ciò che si ha dentro, senza vergogna, Senza paura di avere un nome. Ognuno ha dentro qualcosa, ogni sensibilità merita rispetto: certo, occorre essere disposti di allenarla e a cambiare sempre idea. Ma ogni tentativo di dar voce a quello che si sente va incoraggiato: solo così si può imparare ad ascoltare; solo con il confronto si può conoscere ciò che è altro da sé, per poi (certo!) dare un giudizio, o prenderne anche le distanze. Solo così si può crescere. Solo così si può essere Libero. Basta solo ascoltare, ascoltarsi e uscire dai margini, con umiltà ma anche senza paura di fare baccano. Perché tanto, poi, in fondo Vivi o muori in un istante/ E non rimane niente: e allora perché non farlo? Perché privarsi della possibilità di lasciare almeno un brivido, un simbolo? Basta solo questo: basta un po’ di coraggio, e poi non sei più lo stesso. Facile, no?