Intervista di Gianluca Clerici
Spesso affascina solo a sentirla nominare quella generazione di poeti beat che hanno vissuto e partorito opere per il solo scopo di esistere e mai per quello di apparire. E attorno a questa filosofia si è letteralmente vomitata una stagione di opere intramontabili a firma di anime apolidi dell’esistenza. Derive attuali di tutto questo ce ne sono, timide e spesso relegate in forme arcaiche di avanguardia, ma ci sono e Marco De Annuntiis ne è un esempio, forse ancora troppo lontano dai riflettori accecanti del main stream… ma va anche detto che tutto questo mondo, anti moda, anti radio e anti estetica, non vedrà mai la luce di una simile ribalta, visto quanto ormai siamo divenuti schiavi e dipendenti dalle apparenze estetiche di massa. Il suo nuovo disco pubblicato in CD dalla INTERBEAT e in vinile dalla CINEDELIC Records, si intitola – guarda caso – “Jukebox all’Idroscalo”. Una lunga intervista a seguire, davvero molto interessante, sapendo maturi ormai i tempi per una nuova release (digitale questa volta) che non ci è dato di anticipare ora, ma che avrà una forma totalmente lontana dalla canzone tradizionale e… beh Pasolini, sarà di nuovo protagonista. De Annuntiis, ultimamente passato alla cronaca cinematografica con l’ideazione del film “Se c’è un aldilà sono fottuto. Vita e cinema di Claudio Caligari” presentato anche all’ultima mostra del cinema di Venezia, in questo disco mette a nudo l’uomo e le sue debolezze e non trovo altro modo per riassumere una forma canzone che forse avremmo preferito più randagia ed anarchica ma che in fondo, anche solo a vederla in videoclip, ha sangue buono per la rivoluzione di concetto. Un dardo infuocato contro le ipocrisie quotidiane, contro la superficialità che condanna in prima istanza (e solo per moda e per buona accoglienza della piazza) che si condannano canzoni forti come “Come De André”. Siamo ormai spacciati, drogati di superficialità e immediatezza. Direttamente dagli anni ’70, direttamente dalla Roma di un bellissimo “romanzo criminale”, direttamente dalle polemiche di scena di questo circo mediatico che ci circonda.
Degli anni della beat generation conserviamo quel concetto di libertà espressiva e anarchica esistenza. Eppure oggi, anche nelle libertà più ovvie, dobbiamo comunque ricorrere a un percorso guidato e deciso a priori. Così la poesia, la musica, i dischi… alla fine siamo comunque dentro il calderone mediatico a parlarne. Forse te l’avranno chiesto in molti… come combatti quest’aporia del problema di libertà espressiva?
In realtà credo sia sempre accaduto: chi ha prodotto i dischi di De André o i film di Visconti lo faceva per soldi, mica per la gloria, perché riteneva che in quei prodotti apparentemente ostici ci fosse un potenziale. Oggi è più difficile perché tutto il mercato culturale è in flessione e si vuole rischiare di meno, ma il problema non è combattere la pirateria o lo streaming gratuito: bisognerebbe sottrarsi completamente alle regole di questo gioco rendendosi irreperibili, avere il coraggio di rinunciare alla fonografia tout court, non registrare più assolutamente nulla, su nessun supporto e in nessun formato, suonare solo dal vivo ogni esecuzione unica e irripetibile. Ma chi se lo potrebbe permettere un passo del genere? Solo chi la sua libertà se l’è già guadagnata con il precedente successo, quindi non se ne esce…
Secondo te, un brano una volta composto, ha per forza bisogno di essere ascoltato? Il bisogno di espressione del poeta non dovrebbe soddisfarsi con la produzione dell’arte in se?
Ecco, questo intendevo prima: in quest’ottica si potrebbe proprio fare a meno addirittura di scrivere. C’è una scena del Decameron in cui Pasolini appare nei panni di Giotto e dice “In fondo che bisogno c’è di realizzare un capolavoro quando è così bello immaginarlo?”
Alla fine però la comunicazione ha bisogno di un destinatario, di un riscontro. E il riscontro può anche essere negativo, ma bisogna accettare il rischio, non puoi immaginare capolavori nella tua stanza e pensare che il vile pubblico non sia degno di ascoltarli: è presuntuoso, e pure molto comodo.
E come mail il duetto con Ilenia Volpe? Un accostamento strano viste le vostre rispettive direzioni artistiche…
Borderline è una canzone sulla doppia personalità, quindi ritenevo che un duetto vocale avrebbe reso più esplicita quella dimensione drammatica. Ilenia Volpe si è rivelata la scelta giusta, proprio perché siamo musicalmente agli opposti, lei molto più dura e io molto più decadente: la sua è una voce arrabbiata, è come se l’uomo della coppia fosse lei.
Domanda piccante: quanti avranno capito “Come De André”?
Inizialmente pochissimi, è facile prendere alla lettera un pezzo del genere ma l’avevo messo in conto. Una volta sgonfiato l’effetto iniziale ho iniziato a notare più reazioni positive, del resto solo chi conosce profondamente De André può godersi tutti i giochi di parole nascosti nel testo e magari è anche il primo ad essere infastidito da quella saturazione agiografica.
Cinema d’autore. Perché sei anche questo visto che da una tua idea si è realizzato un film documentario sulla realizzazione di “Non essere cattivo”, l’ultimo film di Claudio Caligari. Da dove nasce questa idea?
Per Caligari avevo scritto un brano, il Blues della Renault, che riprendeva atmosfere del suo primo film Amore tossico. Cercavo spudoratamente l’occasione di incontrarlo e di fargliela ascoltare, così un giorno ero presente sul set di Non essere cattivo mentre giravano la scena della rapina, di nuovo su una Renault stavolta degli anni ’90: capii che era una sua ulteriore auto-citazione, che avevo avuto ragione a scrivere quella canzone e a intitolarla così. Il fatto che un intellettuale forestiero come lui avesse scelto proprio Ostia per rappresentare il paradigma della periferia universale mi aveva colpito e commosso, così dopo la sua morte improvvisa pensai che noi del posto dovevamo in qualche modo restituirgli l’omaggio e così coinvolsi Fausto Trombetta, un regista di Ostia che conoscevo per proporgli di far partire insieme un documentario. Poi quando siamo arrivati al produttore Simone Isola lui è subentrato come co-regista e il progetto è cresciuto di livello, unendo i materiali di tutti e girandone insieme di nuovi, quindi il backstage di Non essere cattivo è diventato la griglia narrativa, il filo rosso del racconto di Se c’è un aldilà sono fottuto – Vita e cinema di Claudio Caligari: per questo film ho anche composto delle musiche originali e alla fine il Blues della Renault è finito sui titoli di coda, una piccola soddisfazione personale per quell’incontro che rimpiango di non essere riuscito ad avere.
Cosa significa per quel tipo di cinema? E quanto somiglia alla tua musica?
Come dicevo le mie canzoni hanno tratto ispirazione dal cinema molto spesso. Ritorniamo alla domanda iniziale: tutto il cinema italiano degli anni ’70, sia quello d’autore sia quello più popolare, era subordinato ad esigenze commerciali; eppure, in mezzo alla sponsorizzazione palese di bottiglie di liquori e di pacchetti di sigarette, si riusciva pure a far passare delle cose terribili, ad osare un coraggio oggi impensabile: adesso in nome del politicamente corretto si sono eliminate entrambe le cose, sia la pubblicità occulta del whisky che le tematiche scabrose.
Di recente sei stato in finale sul palco di “Corde e voci d’autore” all’interno della Fiera di Cremona…
Premio che non ho vinto, ma dove ho conosciuto tanti colleghi validi e ho avuto occasione di rendermi conto di quanto il nostro sia un ambiente assurdo: proprio perché la canzone d’autore non è un genere, ognuno ne fa la sua versione e non conosce quelle degli altri. Viviamo nell’equivoco che la nostra sia la musica tout court, che non abbiamo bisogno di ghettizzarci come fanno altre sottoculture underground, mentre è pieno di scene musicali “di nicchia” che riescono a sopravvivere e a creare dei circoli virtuosi basandosi solo sul passaparola: forse dovremmo imparare da loro a fare rete, a essere più umili e coesi.