Intervista di Gianluca Clerici
Ve lo dico subito. Un’intervista da leggere. Torniamo a parlare di Stefano Todisco, torniamo a parlare con TOBIA LAMARE. Ecco il nuovo bellissimo disco figlio di un’America diretta discendente di Dylan e di tutte le sue derive, un disco che sa di costa occidentale e di sud, realizzato nel suo studio salentino, intriso di pietra e di legno e di quell’immancabile profumo di casa. Si intitola “Songs for the present time” ed è un concentrato di nostalgia per uno stile che Tobia Lamare ha saputo contaminare di suo. Ma è anche un riassunto di stile e di classici, un album che porta con se le fotografie per ricordarci sempre quali siano le vere radici. Da artisti come Tobia Lamare non possiamo aspettarci che dischi grandi come questo. E a lui rivolgiamo le consuete domande di Just Kids Society:
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
In verità ci sono tantissimi dischi ma ci sono anche meno soldi in giro. C’è un sogno represso e spesso irrealizzabile dentro ogni musicista: quello di essere una rockstar come lo si era fino agli anni ’90. Il modo della musica è sicuramente cambiato, ma è il music business a essere diverso e non il motivo per cui un artista ha un atto creativo e se le persone non ascoltano i tuoi concerti probabilmente devi provare a cambiare pubblico. Non dico che questo sia facile, anzi ci vogliono molti sacrifici e non tutti sono disposti a farli. Non sono anni facili per nessuno, ma credo che ci troviamo comunque nella parte di mondo più fortunata.
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
Le differenze si sopprimono per paura e questo è un processo molto pericoloso. Per me la diversità è vitale. È una fonte di energia, ispirazione e curiosità. Il disco ha una sua personalità, spero, che è venuta fuori durante la sua produzione.È figlio di sentimenti contrastanti e di strumenti musicali molto diversi tra di loro.È figlio di viaggi e di istantanee scattate con gli occhi e anche con il cuore. Per quanto riguarda l’appartenenza al sistema, possiamo considerare questo disco come un outsider.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Non ho mai scritto per il pubblico, ma per il pubblico mi esibisco. Se decidi di fare un concerto accetti i fischi e prendi gli applausi. Confrontarsi con chi non ascolta il tuo genere è sempre molto costruttivo, e poi un concerto suonato bene comunque rimane sempre un buon concerto per tutti. Conosci la canzone “The Road” di Daniel O’Keefe? Il testo racchiude l’essenza di una band, non mainstream, in giro per concerti. Siamo pirati: inseguiamo e ci facciamo inseguire.
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
Abbiamo un problema con l’esposizione mediatica. A volte il tempo dedicato a scattare una foto supera quello per fare musica. Ci piace in realtà essere seguiti sui social perché siamo orfani dei programmi televisivi, delle riviste, delle radio.È assurdo che i programmi musicali in televisione siano solo ed esclusivamente talent. Non esiste più nessuno che ospita band solo per il fatto che abbiano fatto uscire un disco o che siano in tour.È un cane che si morde la coda: come possiamo avere più gente che compra dischi o che va ai concerti se non la nutriamo di musica?
Un disco “antico”, ricco di una personalità che gioca con le ricchezze del mondo che ha visto e che ha ruota suonando in tour lontani da casa. Un disco dal suono maturo, che non si piega alle mode adolescenziali dalla indie generation. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
Mi dispiace molto che il termine “indie” ora rappresenti tutto il contrario del suo significato originale. Mi dispiace perché questo disco lo sento molto indie, perché lo sono io da sempre.È un disco che ha assorbito le emozioni raccolte in viaggio, le difficoltà e le gioie incredibili che ci regala la vita. Lo abbiamo arrangiato in tour durante i concerti, nei day off in albergo, sulla spiaggia nei momenti di pausa.È stato registrato con calma sfruttando la casualità dei riverberi della mia masseria.È stato prodotto con il budget ricavato dalla nostra musica.È un disco indie (indipendente) di suono e di concetto. Essere un musicista indipendente è una scelta di vita. Quando non hai un contratto c’è una grande libertà ma anche grandi ostacoli da superare e la musica diventa parte integrante della tua vita. Sei l’imprenditore più freak che ci possa essere. E così la musica e il tuo suono rispecchia inevitabilmente quello che sei, cioè sei “indie”, però senza generation.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
La cattiva musica c’è sempre stata. Non ce ne ricordiamo perché, per fortuna, si dimentica in fretta. In Italia c’è un pubblico sborone, chiuso e settorializzato. Siamo tutti figli dei paninari: troppo attenti alle mode, ai marchi e alle catalogazioni. Se ascoltiamo reggae non andiamo a un concerto blues. Se ci piace la trap allora il rock è una merda.È assurdo perché è come se un musicista classico ti dicesse che tutto quello prima di Bach è uno schifo e allora non lo ascolta. All’estero non è così e la sera si esce e si va ad ascoltare musica per avere il piacere di vedere musicisti suonare e bere una birra. Il dramma italiano si rispecchia nella risposta che ricevi quando chiedi com’è stato un concerto: ti rispondono dicendoti se c’era molto o poco pubblico. All’estero ti rispondono parlandoti della band e delle canzoni.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
È una domanda molto interessante perché necessariamente non dev’essere un lavoro. Abbiamo un problema con l’inquadramento dei musicisti in Italia. Ad esempio sul sito dell’INPS per versare i contributi dobbiamo dichiarare di essere un’azienda con dipendenti anche se sei una ditta individuale. Se una persona vuole suonare per suonare deve comunque aprire l’agibiltà INPS. Mi chiedo: ma quando si gioca una partita di calcetto amatoriale i giocatori si versano contributi?
In Irlanda i musicisti non pagano tasse fino a un ricavo di 20.000 euro annue. Questo perché in un paese dove la musica si respira si tiene conto del fatto che i musicisti girano con una strumentazione del valore di uno studio dentistico e un guadagno molto spesso basso. Per loro questo è un modo di sostenere l’arte e la musica, che a volte è lavoro ma molto più spesso è un processo terapeutico.
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto di Tobia Lamare, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Il pubblico dopo il concerto non deve andare via ma dovrebbe iniziare a ballare. Io metterei la versione originale di “Mr Big Stuff” seguito da “Best of my love” delle Emotions e poi “In the Street” dei Big Star. Dovrebbe funzionare.