Intervista di Gianluca Clerici
Esordio di provincia e di rabbia come si legge in molte delle pubblicazioni che hanno coronato l’uscita ufficiale del primo lavoro del duo abruzzese degli UNIBRIDO. Chitarra elettrica e batteria, senza troppo mettere in scena le proprie identità con nomi e cognomi ma lasciando che sia questo disco sociale dal titolo “P.I.G.S.” a parlare per loro. Con la produzione di Luigi Caprara e le belle soluzioni più corpose ma sottili e indiscrete lasciando che sia il vero nucleo del duo a portare avanti la storia. Ad un esordio come questo, che fotografa non solo la società ma anche il quotidiano che accade attorno, non potevamo che soffermarci con le nostre consuete domande di Just Kids Society:
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
Beh, la domanda è immensa. Ovviamente non c’è una realtà oggettiva, ognuno descrive il presente secondo la propria parziale prospettiva.
Voglio essere ottimista: il mondo della musica sta cambiando, lo ha sempre fatto e sempre lo farà. Le modalità di fruizione si modellano in base agli sviluppi tecnologici che modificano a loro volta le abitudini delle persone. Oggi ascoltare musica non costa quasi nulla e si ha praticamente accesso a tutta la discografia mondiale. Questo per me è un bene, se c’è un problema non sta qui. La questione è più profonda e radicale: qual è il rapporto che ognuno di noi ha con la musica? Cos’è per noi la musica? A cosa ci serve davvero? Platone nel Timeo parlava della musica in termini enfatici; per lui serviva addirittura a “portare all’ordine e all’accordo con sé il movimento dell’anima divenuto in noi discordante”. Una specie di profonda terapia dunque. Io non so se questa sia la sua unica vera funzione, penso però che se “il consumo” di musica da parte di ognuno di noi è così assiduo, significa che in un modo o nell’altro ne traiamo un certo giovamento.
Mettere in discussione i prodotti artistici e cercare di chiarire quale sia la loro “utilità” (chiedo scusa per il brutto termine rivolto all’arte), fa parte della cultura di una società. Nella nostra che ruolo ha la musica? È una terapia per l’anima o l’ennesimo prodotto da consumare e buttare?
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
L’appartenenza al sistema non si cerca: è un dato di fatto. Da qui partiamo. Ronald Laing, psichiatra e filosofo scozzese, scriveva che in una società totalmente alienata nessuno può mettersi a pensare, sentire o agire se non partendo dalla propria alienazione, e io credo che nel disco questa parte di consapevolezza ci sia. Il passaggio successivo sarebbe quello di abbandonare la propria personalità più che cercarla, dato che una eventuale presa di posizione nei confronti della società non potrà mai essere immune da condizionamenti, inquinata com’è fino alle fondamenta.
In “Rumore freddo”, l’ultima traccia dell’album, abbiamo cercato di rappresentare a livello sonoro questo ipotetico distacco.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Io personalmente faccio musica per esigenza “fisiologica”. Me lo chiede il corpo e io semplicemente obbedisco. Non a caso abbiamo definito il nostro progetto gastrointestinale musicale. Non stiamo bene, eh?
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
Bisogna capire bene quali siano le priorità di ognuno. Se il fine è apparire puntando tutto solo sull’immagine senza nessun altro tipo di contenuto è un conto, le cose cambiano se invece utilizzo i social media come mezzo per dare più visibilità al mio lavoro che, immagino, avrà un certo indirizzo creativo. Le due cose sono ben diverse. Altrimenti potremmo accusare anche Nietzsche di “pavoneggiarsi” perché si pubblicava da solo i libri.
Per rispondere alla domanda, sembra esserci tanto bisogno di apparire. Forse esagero ma pare che più si è disperati e più si faccia di tutto per non darlo a vedere. La fragilità, la precarietà esistenziale non piace, annoia o mette tristezza. Non aumentano i follower se sei depresso e fai alla vita domande troppo impegnative, troppo profonde.
l social sono il miglior rimedio che il sistema offre. Fatti un selfie e non pensarci! Come dice il grande Natalino Balasso “Risolvere i problemi non serve al sistema”.
Resistenza e non resilienza, reazione e rivoluzione a proprio modo dietro il disco degli UNIBRIDO. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
Cercare un punto di vista diverso dalla percezione della realtà quotidiana è il lavoro più complesso che un essere umano possa fare nella sua intera vita. Ci vogliono poesia, coraggio e intuito: doti non comuni di questi tempi. La verità è che questo disco è figlio delle nostre stesse gabbie mentali e culturali, da quelle più pragmatiche legate alla condizione storica e sociale a quelle più profonde ed invisibili del linguaggio e della psiche. Non darei dunque a questo materiale una precisa volontà di separazione (siamo convinti che il processo artistico del progetto sia ancora in evoluzione) anche se ne intravediamo una prima germinazione.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Io credo sia solo una fase temporale di “decadenza”. Sono convinto che la musica, come qualsiasi altra forma d’arte, tornerà ad occupare quello spazio sociale che le compete. E’ vero che la tecnologia ha profondamente cambiato le nostre abitudini: siamo più virtuali e meno tangibili, ed è vero anche che la società dei consumi ha da sempre cercato di trasformare anche la musica in merce da usare e gettare. Non dedichiamo più all’arte quella attenzione e quella calma necessarie a rendere una pratica artistica degna di questo nome e ciò rende l’ascoltatore medio incapace di individuare la qualità in mezzo ad una scelta sconfinata. Però mi sento di dire che, anche se meno percepita, la voglia di fare esperienza diretta della musica dal vivo c’è ancora. La sentiamo. Sulle condizioni di salute della musica ha recentemente scritto un gran bel libro il critico Antonello Cresti di Solchi Sperimentali. Lo consiglio.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Direi che la fase compositiva ha richiesto momenti prolungati di isolamento. Gli Unibrido però non hanno paura degli esseri umani. Anzi. Siamo sicuri di poter offrire a chi avrà voglia di ascoltarci una esperienza sonora molto interessante. A tratti palpitante, a tratti quasi liturgicamente psichedelica.
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto degli UNIBRIDO, il fonico quale musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Il nostro è un sound particolarmente deciso, quindi dopo gli Unibrido servirebbe qualcosa di analgesico per l’udito! Proporrei due opzioni: un brano di Erik Satie, ad esempio “Gnossienne”, forse lascia un po’ di malinconia addosso ma è folgorante, oppure abbandonerei l’ascoltatore al silenzio più totale perchè, come dice Stefania Ferrante delle Dianime, nella musica o nell’assenza di suoni si possono trovare tutte le risposte. E noi vogliamo che il nostro pubblico le cerchi.