Intervista di Gianluca Clerici
Nuovo disco, il primo totalmente in italiano. Il cantautore abruzzese Giuseppe D’Alonzo pubblica “Tornerà” un lavoro sotteso e sospeso, acido nelle sue trame pop, lo-fi di un gusto retrò come accade anche nel video di lancio “Respiro”. Lo ritroviamo dopo anni di gavetta, costruito e formato, coerente di una scrittura che non ha ambizioni di sfacciata vetrina ma si lascia raffinare dal messaggio e dalle tante rifiniture d’autore. A lui le nostre consuete domande di Just Kids Society:
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
Credo che la parola d’ordine e ampiamente abusata sia “cambiamento”. Se ci riflettiamo da diversi anni ormai non facciamo altro che cambiare. Cambiamo così spesso che la parola stessa sta perdendo di significato.
Ognuno di noi nel proprio ambito può fare questo esperimento e riflettere su questo termine. È un esercizio difficile e allo stesso tempo potente, forse necessario.
Io credo che cambiamento e stabilità siano facce della stessa medaglia, non si può avere l’uno senza l’altro a giustificarne l’esistenza.
Dopo un periodo di stabilità il cambiamento arriva, scardina la nostra zona di comfort e ci porta su un nuovo terreno di fertile crescita personale, professionale etc..
Ma l’uomo ha fortemente bisogno di costruirsi la propria zona di comfort, perché è lì dentro che si creano i legami forti, si sviluppano le competenze, si applicano le nozioni e così via.
Ho l’impressione che oggi il cambiamento stia camminando da solo, e noi lo inseguiamo affannati con i nostri strumenti informatici, di intelligenza artificiale.
Tutto è fluido, quindi dobbiamo essere quanto più prossimi ad un fluido per adattarci al cambiamento costante.
Non so se questo è un bene o un male, è però quello che vedo oggi. La chiave che può aiutarci purtroppo, e lo dico davvero con rammarico, è la superficialità. Solo con essa riusciamo a non “mettere radici profonde” ed essere “più fluidi”.
È facile intuire come l’arte, e quindi anche la musica, che si nutrono di sentimenti profondi, ne soffrano più di ogni altra “disciplina”. Ma noi non ci arrendiamo!
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
Tornerà si prende la libertà di avere radici.
È un disco che parla di me, del mio passato, del mio modo di interpretare il mondo, dei miei sentimenti.
Non è affatto liquido se non nella distribuzione. Affronta temi e valori solidi che difendo con energia e di cui spero si possa tornare a parlare non solo nel mondo diciamo così “underground”.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Una esperienza bella è tale se viene condivisa con altri, l’essere umano è fatto così.
Come nel film “into the wild” ispirato alla storia vera di Christopher McCandless, dopo mesi e mesi di isolamento in Alaska a cercare se stesso nella bellezza della natura.
Prima di morire per una intossicazione, il protagonista riporta nel suo diario di viaggio che è giunto alla conclusione che l’uomo è un essere sociale, e la felicità sta nel condividere le gioie anche le gioie della natura, in quel caso specifico.
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
Io invece credo che fare musica per se stessi è inutile, la gioia è nel condividere con gli altri quanto si ha da esprimere, proprio per quanto detto sopra.
Fin quando si ha qualcosa da dire e se la si dice bene, ovvero con canzoni, si spera, piacevoli, la propria voce può unirsi a quella di tantissime altre e portare ad esempio un vento di cambiamento oppure solo un lieve giovamento.
Un primo lavoro in lingua italiana ma anche un’ennesima conferma della propria sensibilità artistica. Un disco che sembra somigliare ai segreti del proprio vissuto. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
Questo disco arriva dopo tre dischi prodotti in lingua inglese, e per me credo sia il cd della maturazione artistica. Ho scoperto il bello di scrivere canzoni in italiano, lingua che a volte difficilmente si accompagna con il rock. Per me è stato evidentemente necessario un percorso nel blues/rock di stampo anglosassone per approdare ad una scrittura di testi in italiano che non snaturino la mia vera essenza pop/rock, anzi la valorizzino.
Con questo disco credo di aver intravisto la mia dimensione cantautorale.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Davvero non saprei dire di chi è la colpa e se c’è una colpa in tutto questo.
Credo che tutto sia figlio di ragionamenti simili a quelli fatti poco fa sul cambiamento, la forma liquida e quindi la superficialità come punto di forza.
Dalle mie parti i locali acclamano con cartelloni più o meno grandi serate di Tribute, cover e così via…siamo in una fase di pura idolatria di artisti del passato, che meritano tutto il rispetto e l’amore che gli diamo, ma il nuovo? L’inedito? Viviamo forse nuovi secoli bui?
La risposta non ce l’ho però mi diverto come tantissimi altri miei colleghi nel continuare a fare musica.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Senza alcuna pretesa nei miei lavori cerco sempre un dialogo con gli altri.
Fornisco una mia interpretazione del mondo, consapevole degli innumerevoli errori che posso commettere, ma cosa c’è di più bello di poter ancora permettersi di sbagliare?
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto di Giuseppe D’Alonzo, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
La cambierei senz’altro a seconda dell’umore e del mood della serata ma di sicuro almeno una volta manderei “Angels” di Elliott Smith.