Intervista di Gianluca Clerici
Un disco silenzioso e personale questo nuovo lavoro del cantautore e producer toscano Roberto Sarno che rivede il suo passato di belle canzoni in una chiave più intima, più lo-fi con quel piglio indie che tanto ci piace. In duo con Marco Mafucci produce e pubblica per la RadiciMusic questo “Prova Zero” che didascalicamente ci introduce in una sorta di prova personale ritiro spirituale, in un’alcova segreta dove soltanto le sue ragioni hanno diritto di parola. Un disco in cui trova anche spazio un omaggio a Motta, altra gustosa dimostrazione di quanto tutto il suono si sia diretto in una codifica umana e privata. A Roberto Sarno le nostre consuete domande di Just Kids Society:
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
Io credo che la musica non possa morire, è l’estetica, il linguaggio o addirittura i valori che possono mutare. Ogni forma d’arte è figlia del proprio contesto; è nella storicizzazione che cogliamo il meglio degli ascolti, basti pensare a Mozart, a Coltrane o ai Beatles.
Oggi siamo dentro ad un vortice di cambiamento, condizionato anche da aspetti di carattere economico. La possibilità dell’utente di fruire della musica gratis condiziona in origine l’artista nelle scelte stilistiche, fino a metterlo in crisi. Ne esce fuori meno influenzato chi nasce in una situazione già compromessa e ne gode solo degli aspetti di innovatività.
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
A me sembra che le nuove generazioni abbiano una forte personalità, bisogna dare loro fiducia, fare in modo che abbiano le opportunità per svilupparla.
Il mio disco vuole esser un piccolo contributo che ha origine dalla mia personale voglia di raccontare qualcosa e che con la mia personalità si concretizza nel desiderio di esserci. Mi piace sentirmi parte di questo contesto.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Dal mio punto di vista è l’ascoltatore che, immerso nel proprio contesto storico, guida inconsapevole. L’artista è tale se sviluppa delle idee indipendenti, ma oggettivamente rappresentative.
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
Il mondo della musica è talmente vasto che ce n’è per tutti. Per qualcuno può essere soddisfare il proprio edonismo e la propria apparenza, per altri colmare un desiderio di aggregazione, per me parte da un sostanziale divertimento interno che ricerca tuttavia il riscontro al di fuori. Di fatto è nel coinvolgimento del pubblico che trovo soddisfazione.
In generale fare le cose solo per il proprio ego trovo che sia sterile e limitativo.
Un disco di personale trasformazione, o accettazione anche. Un lavoro di sintesi, di radici, di grandissima peso spirituale. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
La mia aspirazione è di rappresentare con la musica e le parole il contesto in cui vivo, me stesso, la mia immaginazione e talvolta i miei sogni. Non mi piace pensare a me come un artista di un pianeta inesistente, vorrei dare un contributo al mondo in cui viviamo, alla nostra realtà.
L’arte più elevata è in genere l’idealizzazione e la sublimazione della realtà e dei pensieri, ma sinceramente non credo proprio di avere questo dono. Mi accontento di cercare una dimensione condivisibile dove chi ascolta possa trovare interesse e piacere.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Oggi chi ci allontana davvero è qualcosa di altro, di poco conosciuto: un virus inesorabile che ci obbliga a cambiare il nostro stile di vita.
La voglia di andare ai concerti non mi sembra che fosse scomparsa, certo che stava mancando la curiosità, quella spinta che portava le persone a sentire cose nuove, diverse…
I concerti che funzionano ancora sono quelli di artisti da una certa notorietà in su. È come se prima di salire su un palco si debba passare l’esame dei media e dei social. Al contrario prima si “conquistava” il pubblico suonando sui palchi in piazza tra la folla.
Ad ogni modo non si deve cadere nella trappola di giudicare cosa era meglio o cosa sta diventando, è tutto cambiato e basta. Ritengo che un po’ più di formazione in senso artistico ai giovani, a partire dalle scuole, non sarebbe male, poi le forme di espressione e di aggregazione troveranno sempre la loro strada.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Beh, immagino che la più frequente risposta di noi sconosciuti, sia quella di una frustrazione insoluta di non riuscire a stare come vorremmo in mezzo alla gente, ci sentiamo isolati e bistrattati, senza la possibilità concreta di interagire col nostro potenziale pubblico.
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto di Roberto Sarno, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
In questo momento direi l’adagietto della 5a sinfonia di Mahler.