Intervista di Gianluca Clerici
Una mescolanza di generi e di grandi sensibilità, un incrocio psichedelico di penne alte e di canzoni diverse. Franco Naddei, ovvero quel famoso Francobeat che gli amanti del vero indie dovrebbero conoscere bene, le ha prese tutte queste celebri voci e le ha chiuse tutte sotto “lo stesso tetto”… quello di casa sua, quello del suo cuore e della sua di “penna”. Esce solo per il mercato digitale “Mostri”, autoproduzione di Naddei nella quale il viaggio è chiaro in via definitiva: lasciarsi ispirare da grandi maestri, da grandi canzoni, da grandi momenti della storia del cantautorato italiano e divenirci contro. Scontrarcisi. Incontrare se stessi attraverso le grandi opere. Con il proprio piglio, il proprio modo di pensare alle forme e ai suoni, alle soluzioni e agli arrangiamenti… o forse sarebbe più giusto dire, con il modo corrente di sentire il senso delle canzoni. Ed è così che Naddei ha cantato e prodotto a suo modo i grandi classici. E questo disco, stravolto e stravolgente, ha davvero tutte le carte buone per essere considerato uno dei lavori più interessanti di quel che è stato un 2019 povero d’autori. E non solo di quelli…
Non un disco di semplici cover. Io non li vedrei neanche come omaggi. Penso più ad una conseguenza di te… non so se ti trovi in queste parole… che mi dici?
Mi piace molto questa definizione. Credo fermamente nel ruolo della canzone che sa raccontare una storia in cui potersi ritrovare. Il percorso fatto con Francobeat mi ha lentamente allontanato dalla curiosità che avevo di capire cosa avrei potuto raccontare io. Sono sempre stato più affascinato da quello che sapevano raccontare gli altri. Penso ai dischi coi testi di Gianni Rodari di ”Mondo Fantastico” e in seguito ai “matti” che hanno scritto “Radici”. Proprio quest’ultimo mi ha folgorato. A leggere le cose che mi scrivevano per farne delle canzoni sentivo una sincerità disarmante, compulsiva e senza controllo. Ho indagato a fondo sui meccanismi della creatività e ho sempre scelto di rimanere istintivo. Musicalmente mi è sempre riuscito, con le parole meno.
Quando ho deciso di affrontare il mio linguaggio sonoro principale, ovvero la musica elettronica, avevo bisogno di parole più che di canzoni anche solo per concentrarmi di più sul suono. E cercare quelle parole forse è stata proprio la “conseguenza di me”.
Forse è anche per questo che non risulta un omaggio a nessuno in particolare perché stavo proprio cercando la mia identità e poter rispondere alla famosa domanda “che genere fai?”.
In più ho sempre cantato in italiano ma senza conoscere bene i nostri grandi, soprattutto quelli che hanno fatto la storia del cantautorato. Così mi sono documentato meglio oltre quello che già apprezzavo e conoscevo.
Ho cominciato a cercare le canzoni dove potevo percepire la totale e sincera sovrapposizione tra l’uomo e l’artista. Non ho trovato esattamente quello che cercavo ma nella ricerca mi sono imbattuto in testi dove mi sono sentito coinvolto direttamente.
Alla fine è diventato una specie di concept su quello che avrei voluto dire io lasciando che fossero altri più bravi a dirlo per me. Guardandolo da fuori mi sono accorto di aver fatto una raccolta di canzoni che parlano d’amore, di come si sente uno che campa di musica e guarda il mondo in cui vive e che associa canzoni a ricordi della vita. E in queste storie ho cercato la mia e ne ho fatto una sorta di studio per trovare in futuro le mie parole come meglio posso.
Perché chiamarli “Mostri”? Così d’istinto penserei subito a qualcosa di spaventoso…
In realtà pensavo semplicemente a “mostri sacri”, gli intoccabili, i grandissimi scolpiti nel firmamento della musica italiana. Come detto ho cercato brani il più possibile diretti e sinceri e spesso per esserlo bisogna scavarsi dentro e se lo fai non sai sempre cosa trovi, ma spesso i mostri sono lì e non li vuoi rendere troppo concreti. Ragionandoci il concetto di sincerità nelle canzoni è difficile da trovare perché non è semplice per chi scrive affrontare i propri mostri interiori e metterli a disposizione di una semplice canzone. Non è sempre necessario essere autobiografici, ma diciamo che anche solo semplici parole che si cerca di non voler usare, un po’ per spocchia, paura del ridicolo, pudore o un po’ per principio, sono di per sé un mostro con cui convivere e, volendo, lottare.
Quando ci si rivolge alla poesia, alla metafora, alle immagini astratte per evocare emozioni temo ci sia in corso un meccanismo di protezione da parte di chi scrive nel tentativo di dire senza dire, o di dire aggirando il mostro interiore. Diciamo che chiamo “Mostri” anche questi, quelli che metti nella narrazione delle tue canzoni per creare una distanza per chi ti ascolta non sempre necessaria.
A volte questi meccanismi di finzione generano immagini meravigliose. Pensa a Conte o De Andrè per esempio. Però bisogna essere veramente bravi per essere credibili e loro ad esempio lo sono, altri meno, almeno per la mia sensibilità.
Per cui il doppio significato della parola era di per sé un buon titolo per riassumere tutto.
E poi amo i titoli dei dischi con una parola sola!
Questi sono per te punti inarrivabili dell’espressione musicale o sono passaggi obbligatori per capire che tipo di artista vuoi essere?
Se ti riferisci alla mia espressione non credo di aver fatto la cosa migliore in assoluto della mia carriera, di solito si dice che sarà sempre quella dopo!
È stato sicuramente un passaggio tanto più che non doveva nemmeno diventare un vero e proprio disco ma un semplice gioco di ricerca sonora.
Con Francobeat ho fatto 3 dischi, quella che io definisco la mia “trilogia della fantasia”, dato che tutti e tre erano accomunati dall’idea di libertà di creare, fantasticare, giocare. Dalla fantasia “ribelle” della beat generation italiana, quella razionale di Rodari e quella totalmente fuori controllo dei matti di “Radici”. Tutti basati sulla parola e tutti trattati con suoni sempre diversi anche all’interno dello stesso disco. Ho uno studio di registrazione, produco e arrangio dischi per altri di continuo e ho prodotto anche i miei senza però mai pormi il problema di una identità sonora riconoscibile. In questi anni in cui ho messo il mio modo d’intendere l’elettronica al servizio di altri (penso soprattuto ai SantoBarbaro e ultimamente a Houdini Righini tra gli altri), ho capito che fosse arrivato il momento di usarla per un disco mio, come facevo a vent’anni.
Nel tempo, tra dischi e concerti, ho maturato un modo di suonare l’elettronica molto fisico ed analogico e questo facilita l’istintività dell’atto creativo. Con le mie macchine analogiche sotto mano riesco a trovare quello che ho in mente piuttosto rapidamente. Mi do dei limiti e parto, ed è questo che mi piace. Poche cose da spremere a dovere, che conosci bene e che sai come usare nel momento in cui vuoi creare senza perderti in milioni di suoni che un computer potrebbe offrirti.
Sul lato sonoro credo di aver capito, grazie a “Mostri”, che questo discorso è assolutamente da indagare perché è stato uno dei dischi fatti in minor tempo della mia carriera. E tutt’ora, in questi tempi di immobilità fisica imposta, mi sto divertendo a trasferire questa sensibilità anche col computer facendolo “sbagliare” di continuo. È molto divertente.
L’aspetto grafico non è un elemento secondario. Non è un semplice arredo. Parlaci di queste illustrazioni…
Guarda, io vado sempre in crisi quando devo pensarci e infatti ho sempre chiesto aiuto per tutto l’aspetto grafico dei miei dischi. Questa volta, che non pensavo nemmeno di pubblicarlo, non mi ero fatto nemmeno il problema fino a quando ho visto questo disegno che poi è diventata la copertina.
Lo fece mio figlio, qualche anno fa e senza sapere che in testa già mi frullava questa idea dei “Mostri”. C’era già tutto; il titolo scritto e la giusta dose di gioco col mostruoso che mi è piaciuto tantissimo. È bastato dargli una pulitina ed ecco la copertina perfetta.
Mi piacciono le cose semplici e minimali, e devo dire che anche il logo di Naddei lo abbiamo fatto insieme. La prova è stata una divertente discussione sulla semplicità dei loghi delle grandi aziende, quelli che si possono riprodurre anche a mano libera e subito capisci di cosa stai parlando. Per cui ci siamo messi lì, io ho fatto un po’ di proposte e lui le riproduceva. Anche qui il guizzo è arrivato abbastanza di getto e la prova finale è stato farglielo disegnare con una pietra sul pianerottolo della casa in cui stavamo.
Il disegno di copertina, con tutti i suoi dettagli, per me rappresenta proprio quella sdrammatizzazione del concetto di mostro, giocare col lato oscuro delle cose per affrontarle e capirle meglio.
Hai dato ritmo ai cantautori che al ritmo avevano chiesto solamente – in qualche modo – di poter fermare il tempo. Perché questa rivoluzione?
Io amo giocare col ritmo, sempre. Mi piace la poliritmia, lo stordimento della pulsazione. Istintivamente, e se vuoi anche banalmente, credo che questa pulsazione ricorrente abbia a che fare col cuore, con quel lato che si lascia andare alle parole che ti emozionano. In alcuni casi è proprio evidente. Penso alla mia versione de “L’animale” di Battiato dove il battito è quasi assordante, rende anche bene l’idea della lotta col nostro mostro interiore a cui a volte cedi. E in quel caso il mostro non fa “vivere felice mai”.
Credo che chi scrive debba necessariamente un rapporto col tempo in cui vive e ci sono elementi che non risentono poi così tanto del suo scorrere . Alcuni concetti sono sicuramente universali come l’amore, altri sempre attuali come ad esempio la difficoltà che hanno gli “artisti” a campare come racconta “Fame” di Ivan Graziani, e considerato quello che stiamo vivendo è quantomai attuale.
E proprio il fatto di averle vestite con un suono “contemporaneo” mi dava la piacevole sensazione di poter offrire a queste canzoni la possibilità di affacciarsi alla finestra di oggi da una angolazione diversa per vedere che effetto potesse fare. Capisco che per qualche purista magari ho osato un po’, ma credo di aver messo una dose di incosciente sincerità nel reinterpretare queste canzoni per farle mie ma con rispetto. Spero si percepisca.
E poi volevo proprio che quelle canzoni diventassero ballabili, a prescindere da chi e come le aveva scritte. Considera che alcuni brani li ho scovati leggendo solo il testo ignorando del tutto la parte musicale, e degli altri che conoscevo mi sono divertito a smontarli e rimontarli. Per fare questo li ho suonati dal vivo cantando, con una batteria elettronica e un paio di sinth vintage. Sono proprio partito dalla pulsazione andando successivamente in sottrazione ma lasciando quella mossa che mi sarei voluto portare ai concerti.
Spesso facendo elettronica ci si trova fermi a girare qualche pomello mentre fuori esce l’inferno di suono. Ecco, io volevo girare i pomelli e ballare con Ciampi, Tenco, De Andrè, Conte e tutti gli altri.
È così è nato anche il termine “cantautorave” che mi ha affibbiato il bravo Giacomo Toni, che è un cantautore che con le parole ci sa davvero fare.
Credo sia ancora necessario osare, senza troppi pensieri. Questa si sarebbe una rivoluzione.
A chiudere: perché non l’hai stampato?
Sono anni che tento in tutti i modi di non stampare i dischi e di trovare formule alternative ma non sempre sono riuscito a farlo e a convincere di questa cosa quelli a cui ho collaborato attivamente.
“Mostri” doveva essere tutto un gioco, una sperimentazione da lasciare così nella rete senza troppe pretese. Solo dopo i primi concerti e le prime opinioni raccolte in giro ho deciso di farlo uscire allo scoperto. Inizialmente volevo esistesse solo come live-act proprio per la sua natura corporea e per il fatto che il live secondo me è già molto meglio del disco!
Stamparlo mi sembrava metterlo un po’ in gabbia e non l’ho fatto anche per una specie di forma di pudore nel non voler guadagnare (ammesso che fosse accaduto!) sulla musica altrui che nella mia carriera non avevo mai affrontato così approfonditamente.
Un bel vinile ci sarebbe stato per quelli della mia età, ma magari lo farò col prossimo dove vorrò scrivere di mio pugno. E da studiare ce n’è ancora e sempre.