Intervista di Gianluca Clerici
Cantautore pop, cantautore dalle belle radici americane, di quelle che vedono liriche e accordature appena sghembe dentro le metriche e le melodie… melodie queste che poco si incuriosiscono di cercare soluzioni che siano efficaci alla stregua delle belle hit pop da radio. Cantautore di lungo corso Davide Geddo che torna in scena con un disco assai ostico sul piano vocale, assai classico sul resto del fronte compositivo… un lavoro che sa di cammino e di semina, di raccolto e di incontri, di belle collaborazioni… di un risultato d’amore che merita un lungo approfondimento. Ascoltando questo disco titolato “Fratelli”, leggendo le sue interessanti risposte ai consueti quesiti sociali di Just Kids Society:
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
Non sono così negativo. Anzi io sono fiero di riuscire in qualche modo ad appartenere a questo momento di trasformazione. È un momento pioneristico. Devi attualizzare le forme del tuo linguaggio e devi misurarti con la distribuzione universale ma granulare del web. Devi in qualche modo mettere della sabbia nei meccanismi di triturazione della proposta. Devi prendere atto che la televisione e la radio sono mezzi ormai totalmente commerciali e che rappresentano solo un punto di arrivo per chi mai avrà un minimo di appeal da sfruttare promozionalmente. Tutto sembra inutile e abbandonato ma in realtà la tua storia si fissa nella grande memoria virtuale e la grande scommessa è essere veri ed autentici nell’attesa che il tempo faccia il giusto lavoro di scrematura. Io ci credo. Le soddisfazioni stanno arrivando al mio decimo anno di percorso discografico e spero aumenteranno. Bisogna sapere essere reali e riuscire a trasmetterlo anche nella propria identità virtuale. Stiamo creando il nostro Frankestein. Si può fare.
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
Il sistema non c’è più o se c’è ce n’è più di uno. Sono fiero di appartenere a quest’epoca di trasformazione e non sono sicuro che vada tutto perduto in una proposta elefantiaca. Con un po’ di pazienza ognuno sta costruendo il proprio pubblico, la propria situazione. Finalmente dopo tanti anni è avvenuto un ricambio generazionale nella musica italiana. Sono sicuro che non abbia portato molti danni a quelli come me e che abbia dato un colpo mortale a quel tipo di musica inutile che abbiamo avuto fino a 5 anni fa. Io per esempio non ho bisogno del duetto con il rapper. Vado benissimo da solo o con i miei Fratelli dove devo andare.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Nessuno deve inseguire nessuno. La novità è che siamo tutti dalla stessa parte. Contro chi è ancorato a vecchie sovra strutture. Il pubblico è parte della mia musica e dei miei spettacoli. In qualche modo anche delle mie canzoni. La canzone torna colloquiale, diretta o evocativa ma scritta per la piazza, per la strada. In questo modo si resta credibili. In questo modo il pubblico si fidelizza e si trova a sostenerti e seguirti. Fino a pochi anni fa le canzoni ormai sembravano scritte per fare il video o per lo studio televisivo. Dai talent esce poco perché poi quando arrivano in strada il pubblico finto non si trova. Un mio spettacolo quando riesce è perché si forma un’interazione che rende il pubblico protagonista di una situazione e non spettatore. C’è perfino qualcosa di punk in questo.
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
C’è un trucco che funziona. Apparire per quello che sei. La fortuna del cantautore, mi scuso per la generalizzazione, è la consapevolezza di giocarsi una vita e non un’estate. I social in realtà permettono tramite delle sfumature di creare un dialogo con il pubblico più che uno spot. Chi pubblica epopee mirabolanti quando in realtà sta suonando alla sagra della porchetta ha più che altro un problema di insicurezza. E comunque anche dare risalto al fatto che suoni alla sagra della porchetta ha il suo perché. Perché oggi ogni data che fai è una conquista; non c’è un circuito vero e proprio per quelli come me. Non ci sputo sopra. A me piace ogni tanto la data da battaglia. Quella in cui il pubblico te lo devi conquistare. Sarà che in Liguria siamo abituati. I circuiti ufficiali sono pochi e quelli esistenti sono saturi e chiedono troppi compromessi. Resto anarchico e faccio la mia strada.
Un disco di classica forma d’autore italiana, quando il pop e la quotidianità prendono vita dietro melodie dolci e confortevoli. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
Il mio disco è un altro punto di vista. Viene dopo un disco del 2017 che si intitolava Alieni e che parlava dell’incomunicabilità, delle difficoltà che si incontrano nell’avere una comunicazione di qualità, dell’alienazione e delle diversità. Fratelli è il disco complementare ad Alieni. L’altro punto di vista; quello che cerca la somiglianza, la complicità e di quanto la musica (ma l’arte in generale) sia importante per riconoscerci come esseri fratelli che si emozionano di fronte a un racconto, a un’immagine, un’empatia. Mi sembrava corretto dire che per quanto la musica sia un percorso solitario è anche un percorso gioioso in cui ho incontrato persone meravigliose tra i colleghi, tra il pubblico e tra gli operatori culturali.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Siamo in una fase di ricostruzione. Un certo tipo di musica, la deriva commerciale delle radio e la fine dei negozi di musica ha indebolito un certo tipo di aggregazione ma io vedo tra le macerie le prime forme di ricostruzione. La nuova musica italiana è molto diretta, colloquiale; sembra aver capito che si deve ripartire da pezzi molto quotidiani, molto veri. Anche volgari piuttosto ma non quella melassa poppettara che a me pareva peggio dell’inferno. Qualche operatore culturale capisce; altri criticano e non capisco come possano rimpiangere i bei tempi andati che se sono gli anni 70 posso anche comprendere ma rimpiangere i 2000 proprio mi pare fuori luogo. Sono fiero di tenere botta in questo periodo di cambiamento e intravedo la luce di una musica che comunque non tornerà alle forme precedenti. Il Covid ha frantumato la socialità facendomi passare il periodo più inutile della mia vita (dal punto di vista sociale e non personale). Ora diventeremo la categoria più necessaria che mai. Quella che si assumerà il compito di riconnettere una socievolezza distrutta. Il Live sarà fondamentale.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Invece è una domanda interessante. La musica, e soprattutto quella che si definisce per l’autore che la realizza, avvicina chi è lontano ed è bellissimo. Ma spesso allontana chi è vicino. Questo è triste e spezza affetti e amori; d’altra parte la musica è un’avventura infinita e non il tour con guida sul bus turistico.
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto di GEDDO, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
“Things have changed” di Bob Dylan va benissimo.