Intervista di Gianluca Clerici
Ascoltiamo “Gulp!” questo concentrato di libera espressione che più di ogni cosa è nel tempo che viaggia e si contamina. Sono i The Young Nope, formazione abruzzese che torna in scena con un disco prodotto in collaborazione con Marco Pallini (già fonico da palco con Malika Ayane e Niccolò Fabi), che in qualche misura ha saputo come mettere assieme lo spirito libero del suono vintage e quel certo gusto attuale per la giovane canzone d’autore arrivando ad un equilibrio tra indie, pop e irriverenza anni ’70. E il disco si chiude con un brano strumentale, anche video ufficiale che seguirà a breve: in qualche misura i nostri omaggiano quel certo modo che si aveva di rendere visionaria il suono e le sue melodie.
Parlare di musica oggi è una vera impresa. Non ci sono più dischi, ascolto, cultura ed interesse. Almeno questa è la denuncia che arriva sempre da chi vive quotidianamente il mondo della cultura e dell’informazione. Che stia cambiando semplicemente un linguaggio che noi non riusciamo a codificare o che si stia perdendo davvero ogni cosa di valore in questo futuro che sta arrivando?
È vero, pare un’impresa; i locali chiudono, le band si sciolgono, i dischi non si vendono. È questo il destino della musica, almeno nel nostro Paese? Noi un piccolo spirito di ripresa lo percepivamo, ma con il lockdown la crisi nel settore è aumentata. Come funzionerà la musica nel futuro? Domanda complessa, non siamo in grado di rispondere.
E se è vero che questa società del futuro sia priva di personalità o quanto meno tenda a sopprimere ogni tipo di differenza, allora questo disco in cosa cerca – se cerca – la sua personalità e in cosa cerca – se cerca – l’appartenenza al sistema?
Cerca di essere un’espressione relativamente spontanea di ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Non puntiamo al massimo delle aspettative, probabilmente non abbiamo neanche grandi aspettative, abbiamo deciso di scendere ad unico compromesso: essere noi stessi, per quanto questo possa essere limitante.
Fare musica per il pubblico o per se stessi? Chi sta inseguendo chi?
Dipende, ci sono diversi modi di concepire la musica, c’è chi lo fa solo per se stesso e chi per puntare a ritorni economici. Noi confidiamo nelle via di mezzo.
E restando sul tema, tutti dicono che fare musica è un bisogno dell’anima. Tutti diranno che è necessario farlo per se stessi. Però poi tutti si accaniscono per portare a casa visibilità mediatica e poi pavoneggiarsi sui social. Ma quindi: quanto bisogno c’è di apparire e quanto invece di essere?
La nostra società è egocentrica, ma questo non deve stupirci: passiamo il tempo a curare la nostra immagine, a rendere pubbliche le nostre intimità, a mostrarci attivi e funzionali per trarne vantaggio a livello mediatico. Nella musica funziona alla stessa maniera; è un bisogno dell’anima, sì, ma che sfruttiamo per sentirci accettati ed intrinsecamente immersi in un contesto sociale, come qualsiasi altra cosa che facciamo quotidianamente.
Un lavoro antico, vintage, di suoni rock e di cambi di scena poco matematici. Un disco che trovo anche molto figlio dell’istinto compositivo altamente ispirato da quel rock americano del periodo post-beat. Un’opera dell’arte e dell’ingegno, come questo disco, vuole somigliare alla vita di tutti i giorni oppure cerca un altro punto di vista a cui dedicarsi?
In realtà sì, si ricollega alla vita di tutti i giorni, alla nostra spontaneità e ai nostri gusti, musicali e non.
Parliamo di live, parliamo di concerti e di vita sul palco. Anche tutto questo sta scomparendo. Colpa dei media, del popolo che non ha più curiosità ed educazione oppure è colpa della tanta cattiva musica che non parla più alle persone o anzi le allontana?
Si tratta di un complesso di eventi e situazioni che fanno indebolire il settore sotto ogni punto di vista, purtroppo. Dipende tanto dalla musica che gira, quanto dall’incapacità di chi dovrebbe tutelare il mercato, con diritti e opportunità, di fare questo mestiere. Credo sia un problema a livello globale, ma da noi è più intensi; in Italia non esiste più l’indie rock, quello che in Inghilterra fa parte del mainstream da noi sta cessando di esistere, ci deve essere qualcosa che non va.
E quindi, anche se credo sia inutile chiederlo ai diretti interessati, noi ci proviamo sempre: questo lavoro quanto incontra le persone e quanto invece se ne tiene a distanza?
Una via di mezzo, sempre. Con tanta personalità ma con un occhio di riguardo al mercato, pur essendo consapevoli di quanto sia difficile e utopico emergere al giorno d’oggi
E per chiudere chiediamo sempre: finito il concerto dei The Young Nope, il fonico che musica dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Il post punk bielorusso