A cura di Davide Iannace
Quando si gioca ai famosi sparatutto, i first person shooter, di norma non ti preoccupi di quello che stai sparando. È un gioco, non fai altro che seguire le regole preimpostate da questo mondo. Che sia Call of Duty, che sia Battlefield o un qualsiasi altro dei giochi che popolano questo variegato panorama, alla base vi è un giocatore – noi – un gioco in cui si uccide la gente e poi l’azione di farlo. Che sia tattico, futuristico, survival, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il cuore del gioco non cambia. Qualche videogame ha provato però a cambiare le carte in tavola.
Scrivendo in una rubrica che vuole parlare dei videogame come forma di narrazione, riflessione e viaggio che una persona compie giocando, non si poteva non partire da un gioco che mi ha favorevolmente colpito, se non quasi plasmato. Si chiama Spec Ops: The Line, uscito oramai qualche anno. Una premessa è d’obbligo: il suo equivalente in termini di letteratura è Cuore di Tenebra di Joseph Conrad. In termini di cinema, è Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, possibilmente nella sua versione più bella, Redux.
È una premessa importante perché la storia di Spec Ops parte da un incipit non dissimile. Un gruppo di tre soldati viene inviato nel cuore di una Dubai devastata dal deserto per cercare un disperso colonnello delle forze armate americane. Impossibile non notare una similitudine con la squadra di marine capitata da Micheal Sheen nel film che ha reso immortale Marlon Brando o la storia di un giovane rappresentate commerciale alla ricerca di un collega sparito nel cuore dei fiumi africani. Questo sarà un articolo abbastanza ricco di spoiler, quindi se siete interessati a non rovinarvi la sorpresa, il consiglio è di fermarsi qui.
Tornando al nostro gioco, man mano che il giocatore procede lungo le maglie della trama, la prima cosa che viene alla luce è la sensazione di trovarsi all’interno di un mondo ostile, nemico, soprattutto un mondo dove la realtà sembra essere distorta dalla mente del videoludico protagonista, il capitano Walker. Avendolo giocato due volte, da teenager e poi di nuovo dopo i vent’anni, la mia prima impressione del gioco fu quella di uno sparatutto realistico, che iniziò a incrinare – cosa confermata dalla mia seconda run – quello che pensavo dei videogiochi di guerra, o in generale della guerra.
Il gioco ti chiede, metaforicamente, di fermarti all’incirca al primo minuto. Eppure, naturalmente, chi si fermerebbe appena iniziato un videogame? Mi piacerà, non mi piacerà? Vorrò o meno continuarlo? Di certo, razionalmente, non è qualcosa che posso rispondere dopo poco meno di un minuto in cui ho messo mano a mouse e tastiera. Un sociologo olandese, Johan Huzinga, definendo l’homo ludens, l’umano che gioca, ha comparato il gioco a un rituale, che ha un valore all’interno di un certo set di regole prestabile, all’interno di un sistema chiaro e definito in cui tutti hanno un ruolo, tutto segue un certo prestabilito percorso.
Spec Ops rompe questo schema nel primo minuto chiedendoci se ci vogliamo fermare. Giocando, quello che vorrei aver fatto coscientemente è di essermi fermato al primo minuto. Non perché il gioco sia brutto, anzi, mi è personalmente piaciuto moltissimo. Mi sarei voluto fermare perché l’ho odiato per avermi costretto a prendere delle particolari scelte – cosa che poi, ho scoperto, essere una delle sensazioni che gli sviluppatori volevano generare. Hanno giocato con l’homo ludens, creando una narrazione che mette in discussione non tanto ciò che succede nel mondo ludico, ma ciò che succede anche al di fuori di esso.
Nel gioco, in un certo momento, ci si ritrova dinanzi la scelta di doversi confrontare con una installazione nemica fortificata e l’unico modo per andare avanti, nel gioco, senza nessuna possibilità di scegliere – se non quella alternativa di fermarsi, di smettere di giocare – è usare un mortaio caricato con munizioni al fosforo bianco. Per i più che, spero, non abbiano coscienza di cosa sia il fosforo bianco, è una sostanza chimica capace di bruciare i corpi, una tipologia di arma messa più volte in discussione per lo sproporzionato effetto distruttivo. Bombardando l’installazione, il giocatore non solo elimina la minaccia, ma brucia vivi anche 47 civili innocenti, e il gioco non si risparmia nel mostrare i cadaveri carbonizzati.
La prima cosa che ho fatto – e che ha fatto chiunque abbia probabilmente giocato senza sapere dell’esito di quella scena particolare – è stato premere Alt+F4, formula magica per chiudere qualsiasi applicazione su un computer base Windows, e poi riavviare da prima della missione, per provare un altro approccio. Spoiler, non ve n’è. Non vi è possibilità di fare nulla che non sia sparare con il mortaio sopra i militari nemici, e quindi anche i civili. Nemici, poi, è una parola grande per un gioco che gioca con l’illusione che vi siano dei buoni e dei cattivi.
Nel corso del gioco ci si ritrova più spesso a dover compiere delle scelte morali: uccidere un agente della CIA agonizzante che ci ha appena traditi, o lasciarlo bruciare sotto il sole cocente del deserto? Vendicare un nostro compagno linciato dalla folla, o allontanarsi da quelli che sono gli invasi a cui abbiamo appena eliminato ogni risorsa idrica, senza essercene resi davvero conto? Ciò non influisce sulla trama e sul percorso del gioco, ma aiuta a calarsi nei panni di questo soldato che, conscio della sua missione, illuso di essere un eroe, si apre la strada devastando una Dubai già devastata per porre fine a quella che lui percepisce come una minaccia. Dico lui, ma dico nella realtà il giocatore percepisce come il nemico.
Quando giochi a Spec Ops quello che fai è letteralmente giocare mettendo in discussione lo stesso dettame del gioco, il mondo dell’homo ludens di Huzinga e il campo in cui ti vai a muovere. Non è il gioco rotto, o sbagliato, sono le regole che sono messe sotto una nuda e cruda luce e vengono mostrate per quello che sono. Il primo scopo del gioco è chiaramente mettere in luce una cosa che spesso i videogiochi non fanno, ovvero la violenza della guerra – almeno, all’epoca. Recentemente capolavori come Valiant Hearts e This war of mine hanno messo una pezza a questa mancanza del medium videoludico, riportando al centro dell’azione le conseguenze del gioco, in una vera riflessione sul conflitto – tanto contemporaneo che passato.
In secondo luogo, il gioco vuole far sentire inadeguato il giocatore, farlo sentire fuori posto. È quel che ho provato io finendo il gioco, scoprendo tutto l’intricato insieme di illusioni e di delusioni mentali che Walker/il giocatore vive nella sua caccia a Konrad, scoprendo che è morto ben prima dell’inizio del gioco e spingendo alla fatale scelta il protagonista: suicidarsi o vivere? Personalmente, non ho retto e mi son sentito così in colpa da uccidere il protagonista.
Il viaggio che si compie all’interno di Spec Ops è da un lato di riflessione verso sé stessi, verso quello che una persona prova e come si percepisce quando impugna il mouse giocando agli FPS. Sono pochi i giochi che si mettono davvero in discussione, che prendono il loro stesso medium e lo sovvertono. Escono dal cerchio magico di Huzinga, dal loro palcoscenico e costringono il giocatore a cambiare la sua prospettiva. Ci si può fermare prima di uccidere i civili a Spec Ops? Ci si può fermare? Si, basta chiudere il gioco, basta evitare di giocare. È effettivamente quello che Konrad dice a Walker: sarebbe potuto morire, avrebbe potuto fermarsi, ma ha preferito marciare alimentato dall’idea – cosa che fa lo stesso giocatore – di avere ragione. Perché Walker, nella narrazione videoludica, ha i suoi ordini e la sua prospettiva che gli dicono che ha ragione. Noi, giocatori, abbiamo lo stesso medium che ci suggerisce che, in fondo, non possiamo essere noi i cattivi, perché siamo i videogiocatori.
Si è portati a riflettere quindi sul noi-giocatori, sulla nostra relazione con questo medium, e con la prospettiva della violenza poi in secondo luogo. La violenza indiscriminata di molti videogiochi che, lungi da me dire che portino alla violenza nel mondo fisico, ma che viene giustificata come dovuta alla forma del gioco. Non si può aprire Call of Duty e chiedere al giocatore di non premere il grilletto. La chiamata alle armi è quella, sparare, che sia in Normandia nel ’44, in Vietnam nel ’70 o in un futuristico Marte, l’arma è vista come la soluzione. Soluzione a dei problemi in cui ci ritroviamo a essere i buoni, sempre. Siamo i soldati americani che liberano la Francia, siamo gli eroici soldati dell’Armata rossa che respingono i nazisti, i terrestri che lottano contro i militaristi marziani e potremmo continuare a lungo sul come i giochi cerchino di creare un ambiente favorevole ad ovviamente sé stessi. Nessuno vuol sentirsi il cattivo della storia, non gratuitamente. Ci son giochi, i giochi di ruolo soprattutto, in cui è possibile compiere delle scelte renegade – prendendo il linguaggio di Mass Effect -, delle scelte crudeli, cattive, ma perché fanno parte della costruzione del personaggio stesso e quindi reinserite sempre all’interno di un certo contesto metanarrativo eroico.
Non possiamo certo criticare i videogiochi per questo, sia chiaro. Lo scopo è far divertire, far passare delle ore spensierate a chi gioca. Questo copre un buon 90% del mercato, sicuramente. Ve n’è una fetta, di cui Spec Ops fa parte, che non mira al divertimento fine a sé stesso. Vogliono narrare delle storie, che sia con un tono leggero, che sia con un tono pesante – come nel caso di cui scriviamo – vogliono rendere il giocatore partecipe della narrazione. Edward Castranova (esperto e docente di media) parlava di una membrana che divide il mondo di gioco dal mondo reale, membrana non isolante ma porosa. È qualcosa che ritengo i videogiochi abbiano come plus rispetto altre forme d’arte. Ciò che rende porosa la membrana è l’interazione. Sono io che premo il grilletto, sono io che guido la macchina, sono io che compio la scelta A o vado nel luogo B. Per quanto ciò avvenga in un mondo digitale, virtuale, il giocatore esprime una volontà.
Spec Ops gioca con quella che è un’azione automatica. Di fatto scegliamo, ma di fatto noi ci adeguiamo alle regole del gioco. Se gioco a Need for Speed, la mia mentalità sarà tagliata per adeguarsi a quel particolare prodotto videoludico, che non presenta sparatorie di solito, ma gare d’auto che non si basano sul realismo. È una premessa, un’aspettativa che la persona realizza nel momento in cui sceglie a cosa giocare. E lo facciamo, come la psicologia comportamentale ha mostrato, continuamente. È naturale: se guardo un film della Marvel so di aspettarmi un prodotto pop, esplosivo, d’azione. Se guardo un film di Federico Fellini, non penso di ritrovare Capitan America combattere Teschio Rosso.
Il percorso che una persona compie in Spec Ops è quindi carico della premessa di dover semplicemente giocare, sparare, compiere minime scelte e seguire una trama prestabilita. Il percorso che io ho avuto è stato quello di ritrovarmi a dover combattere contro la sensazione di star compiendo azioni sbagliate per motivi sbagliati e non di essere giustificati dal gioco stesso, perché il gioco stesso crea la dissonanza verso il giocatore, lo dice ripetutamente quanto sia sbagliato uccidere indiscriminatamente e quanto le conseguenze delle azioni siano spesso irreversibili.
Spec Ops è uno di quei giochi che consiglio oramai a chiunque voglia approcciare il medium videoludico non solo come pratica di rilassamento dell’anima, ma come forma d’arte vera e propria, come capacità di stimolare alla riflessione il giocatore. Non è ovviamente una sua esclusiva, ma ho pensato di iniziare questa rubrica con un gioco che non ha avuto il successo meritato, che era pieno di difetti ma che ha avuto la capacità di rompere il cerchio magico di Huzinga e di creare una meta-narrazione intorno il gioco in cui ci si mette in discussione e in cui si mette in discussione il medium videoludico.
Porta a riflettere sul ruolo delle proprie scelte, sul modo in cui diamo per scontata a volte la realtà, innestati i paraocchi dei nostri pregiudizi e delle premesse che ci diamo, anche rispetto alle banalità e ai percorsi che compiamo nel mondo reale. Walker, che siamo noi, è così convinto di ciò che crede da non vedere quello che effettivamente fa, i cadaveri già decomposti che pensa siano umani, un Konrad morto da mesi che lui pensa sia il nemico. Cieco nella sua fede, come noi giocatori convinti di essere nel giusto, non vede i suoi errori fino alla fine. Spec Ops è sicuramente un inno alla continua riflessione, anche sui mezzi più scontati, anche, banalmente, sugli stessi videogame. E un po’ anche su noi stessi.