A cura di Davide Iannace
Una delle saghe che più di tante è rimasta nel cuore degli appassionati di videogiochi strategici è quella di Homeworld. Il primo episodio è uscito nel lontano 1999, seguito da Cataclysm l’anno successivo e infine da Homeworld 2 nel 2003. Nonostante fossero passati anni, la saga non è rimasta abbandonata dai fan – la serie gode di una sua nicchia di affezionati che hanno nel tempo modificato abbondantemente il gioco originale, senza mai abbandonarlo. Al punto che nel 2014 ne è stato fatto un remake e nel 2016 diffuso un prequel, Homeworld; Desert of Kharak.
Perché oggi qui a Videoidee parliamo di Homeworld? Perché se questa serie ha conquistato i suoi fan non è stato esclusivamente per delle meccaniche brillanti in ambito tecnico – parliamo pur sempre degli inizi 2000. Se infatti su questo punto di vista il gioco ha avuto il suo da dire, diventando una pietra miliare del genere, con una delle prime campagne strategiche capaci di dare la sensazione di star percorrendo davvero un unico grande viaggio, in compagnia di una propria flotta che si andava affinando missione dopo missione, ciò che ha reso Homeworld forse unico nel suo genere, è tanto l’ambientazione quanto la tematica, trattata con cura e rigore da parte dei creativi del team di sviluppo.
La trama di Homeworld, come suggerisce il nome, gira intorno la ricerca della casa e della propria identità. Il popolo dei Kushan, protagonisti del primo capitolo, sono un insieme di tribù – kiith – che come mostrato nel prequel combattono e lottano tra loro, si scontrano militarmente e ideologicamente. Vivono divisi in kiith, non dissimili da tribù semi-nomadi, e vivono sulla superficie di un mondo desertico, Kharak, allo stremo delle sue risorse.
La pace tra il popolo Kushan viene raggiunta quando una spedizione trova in un relitto di astronave un reattore per i viaggi iperspaziali – non scenderemo nei dettagli tecnici per non perderci – e una mappa per un misterioso mondo chiamato Hiigara, tradotto come casa. Alla scoperta, segue lo sforzo collettivo per creare una nave e una flotta per giungere a questo misterioso pianeta. Appena dopo il primo salto, però, la guerra giunge su Kharak e il giocatore si ritrova a guidare ciò che resta del popolo di Kharak, tenuto in crio-sospensione nella Nave Madre – da cui la necessità di difenderla – a tracciare la rotta ora obbligata verso la misteriosa Hiigara.
L’incipit del gioco è, di per sé, già pieno di quei temi che permeano e rimangono il leit motiv di tutta la saga. Il tema della casa, di ciò che i Kushan possono definire davvero come casa. Il tema dell’identità, di cosa voglia dire essere un popolo e soprattutto sotto quale stendardo. Il tema del viaggio, in questo caso dell’esodo, che spinge la popolazione di Kharak dal loro pianeta morente verso un, sperano, lontano Eden dove ricominciare. Da qui in poi, potremmo dare degli spoiler, quindi attenzione a chi ha ancora intenzione di godersi autonomamente la trama di Homeworld.
Il viaggio dei Kushan li porterà lentamente a riscoprire le loro origini, a scoprire come un tempo fossero non solo dominatori di Hiigara, il loro pianeta natale, ma anche padroni di un grande impero spaziale che, quattromila anni prima, macchiatosi di crimini contro una razza aliena altrettanto feroce, i Taiidan, furono esiliati poco prima di essere sterminati, grazie al benestare della benevola razza Bentusi, e portati lontani, con il solenne giuramento di non sperimentare mai più con le tecnologie dell’iperspazio.
Anche in un gioco, quattromila anni sono tanti. Perse le tracce di quegli antichi accordi e di tutto il sapere del loro antico impero, i Kushan si ritrovano immersi nelle colpe dei padri, letteralmente, su un pianeta su cui erano destinati a sparire, ritornando sulle tracce della casa ancestrale. Troveranno non solo i Bentusi stessi, i Taiidan ancora alla ricerca di vendetta, ma anche una costola del loro antico impero oramai persa in una nebulosa e religiosamente, fanaticamente attaccata all’idea di isolarsi da tutto ciò che venga da fuori la nebulosa – inclusa la loro stessa specie alla ricerca di casa e che porterà allo scontro, violento e fratricida tra le parti.
La trama, che ci viene narrata non solo dalle battaglie, ma anche da dei bellissimi filmati disegnati a mano, in bianco e nero, che tratteggiano questo esodo disperato in questa galassia dai tratti orientali, esotici, se non biblici, ripete più e più volte l’antinomia tra il desiderio del ritorno a casa dei Kushan, la violenza che il loro desiderio scatena all’interno del quadrante di spazio in cui vanno a muoversi, ma anche l’idea di cosa voglia dire casa. Casa, che diventa un parallelo con l’identità stessa che questi diversi popoli formano di sé.
È il pianeta casa? Kharak o Hiigara sono casa, o è a casa la Nave Madre che affronta insieme alla sua flotta lo spazio ostile per portare a questo fantomatico luogo d’origine, ventre materno originale, e che si offre come riparo e scudo per la specie mentre scappa da una battaglia all’altra? Gli stessi Bentusi, la portentosa specie aliena che ha salvato gli antenati dei Kushan, vivono come nomadi, in gargantuesche navi spaziali che fungono da centri nevralgici dell’universo di Homeworld stesso. Senza un pianeta, la loro identità è dettata dal loro stesso scopo di ordinatori e di controllori, la loro proiezione e la loro identità dettata dalle loro navi.
Se da un lato quindi la ricerca del pianeta d’origine è il leit motiv della campagna del primo Homeworld e in parte anche del prequel, Desert of Kharak, un altro importante tassello che compone le campagne di tutta la saga è il tema dell’identità. All’inizio del gioco, i Kushan sono puniti con il genocidio perché trafficano con una tecnologia – quella della velocità iperspaziale – a loro proibita da un accordo di quattromila anni prima, firmato tra l’impero hiigariano di cui sono discendenti e quello Taiidan. Ma sono i Kushan gli hiigariani o sono oramai qualcosa di diverso?
Temprati da un mondo, che loro ricordano come la loro casa, Kharak, dal deserto e dalle privazioni, dalle lotte che hanno spezzato quella razza un tempo unita, che li ha resi diversi, culturalmente almeno, sono ancora questi lo stesso impero antico che ha bruciato il cielo del pianeta capitale dei Taiidan? La risposta di questi ultimi, vista anche la violenza con cui si scagliano contro Kharak, è si. Qual è invece la risposta dei Kushan?
È a metà, in un percorso di ricostruzione della storia e della memoria che porta lentamente all’emergere di quella che possiamo definire come la originaria identità, quella hiigariana, che si manifesterà poi con il cambio di nome di questa fazione, da Kushan a Hiigara nei due capitoli successivi quando – SPOILER – riprenderanno il dominio della loro casa ancestrale. Rivendicano il loro nome, il loro passato, nonché le colpe che rendono tale ritorno macchiato dal sangue non solo di Kharak ma anche di un conflitto speso oramai quattro millenni prima. L’identità, in questo caso, viene generata lentamente dall’azione e dalla ricostruzione.
Identità che viene riscoperta, che viene ricomposta dalla memoria. Identità che, senza storia, non sarebbe tale. È quanto afferma Maurice Halbwachs, sociologo francese morto nel 1945 nel lager di Buchenwald, che proprio sulla memoria ha costruito alcune delle sue opere principali. Divide, nel suo Le mémoire collective, la storia come unica, le memorie come tante, divise per tante costruzioni sociali che l’han vissuta.
In Homeworld avviene lo stesso. Noi, giocatori, estranei, conosciamo perfettamente lo svolgimento della storia del gioco, dalla sua origine alla fine disegnata dagli autori. Conosciamo le guerre iper-spaziali antecedenti al gioco, conosciamo le lotte tra i kiith narrate nel prequel e il percorso dei Kushan prima e degli Hiigariani dopo nella costruzione e nella ricostruzione della propria specie e del proprio pianeta natale. Ma le singole memorie che trasparono, che vengono disegnate dagli sviluppatori, sono quelle di popoli che hanno perso traccia dei motivi per cui combattono – tema più che mai attuale ancora oggi, nel mondo reale – ma che si cingono di costruzioni identitarie tracciate da totem: Hiigara, la guerra iper-spaziale, il nucleo, la tecnologia del viaggio, nel sequel poi una profezia.
In questo esotico universo, dove sembra di ripercorrere l’esodo dell’Antico Testamento in una chiave fantascientifica – molti nomi di luoghi sono direttamente ispirati proprio alla Bibbia, come nel caso di Kharak stesso, della Gehenna o di Gerico – è proprio la costruzione finemente tratteggiata ma mai eccessiva, visiva, degli elementi di questo grande viaggio che rendono non solo affascinante il gioco, ma memorabile.
Gli sviluppatori hanno creato un universo, gli hanno dato delle chiare meccaniche, l’hanno tratteggiato quel tanto da renderlo vivo ma non pesante, non ermetico verso i nuovi venuti, e vi hanno inserito due profonde riflessioni: cosa voglia dire casa e cosa vuol dire identità. Cosa vuol dire viaggiare per ritrovare le proprie origini – tema ripreso in tutti i giochi della saga -, muoversi continuamente tra un relitto e l’altro, tra una nebulosa e misteriosi stazione spaziali di razze oramai estinte, cercando la sopravvivenza e soprattutto un senso alla sopravvivenza. La sopravvivenza allo sterminio di Kharak li spinge alla ricerca di vendetta verso i Taiidan ma è ripercorrendo poi il percorso, lento e costante, verso casa, che trovano un nuovo scopo: la pace, e la ricostruzione della loro specie partendo non più dall’ignoranza del passato, ma dalla conoscenza, specie del passato, cosa che porterà agli eventi poi del secondo capitolo e al suo finale.
La memoria viene ricostruita, come Halbawns tratteggia nel suo libro, e lo sforzo è quello di ricostruirla inglobando non solo la memoria del proprio popolo ma anche le altre memorie, che donano uno sguardo complesso, più ampio, più difficile anche da accettare, ma che porta realmente alla stabilità. Gli Hiigariani di quattromila anni prima non erano pacifici, anzi, responsabili di tanto dolore quanto i Taiidan saranno nel gioco principale.
Ma, se avessimo invece giocato nel passato, gli eroi chi sarebbero stati?
Memoria, identità, casa, sono quindi portanti nella costruzione dell’universo di Homeworld, in tutti i suoi capitoli. Nel prequel, consci di quel che succederà, si assiste alla ricostruzione di una unità spezzata da un mondo disastrato, allo stremo – scelto proprio per quello come luogo dell’esilio. La casa, in questo caso, che non si vuole né può abbandonare, ma che si vuole difendere. La ricostruzione in Homeworld e la sua difesa nel secondo, nonché la scoperta del vero potenziale del proprio passato e della propria memoria.
La saga di Homeworld è rimasta così tanto nel cuore dei suoi fan da aver spinto il produttore ad una campagna di crowdfounding e di investimento, una tecnica mista tipica del mercato video-ludico, che sta portando nel 2022 al terzo capitolo ufficiale della saga. L’esotico universo dei Kushan, dove enormi asteroidi si miscelano a gigantesche navi oramai perdute nella polvere dello spazio, ha tenuto con fermezza il suo posto nell’immaginario fantascientifico, pescando tanto dal passato – come da Dune, la saga dell’autore fantascientifico Frank Herbert che avrà al cinema un nuovo adattamento a cura del regista Denis Villeneuve – ma tanto tracciando il futuro dei videogiochi a tema fantascientifico e strategico.
Volendo concludere, Homeworld è un gioco non-politico che però, per una scelta forse voluta o forse casuale, ottiene una sua sfera politica. Il tema dell’esodo, della casa perduta poi ritrovata, la sua conquista e la sua difesa, sono temi che ancora oggi infiammano il dibattito pubblico tanto in Israele quanto anche in altri contesti, come quello del Kashmir o del confine indo-cinese.
Il problema delle identità dei popoli, di ciò che possa essere definito casa e cosa voglia dire costruirla in mondi in cui risulta difficile identificarsi, sono problemi che oggi attanagliano, proprio come cento anni fa attanagliavano Bergson e Halbawns, il discorso pubblico. Homeworld, nel suo piccolo, va a trovare nella ricerca delle proprie origini la ricerca degli errori e il come ripararli, sintetizzati efficacemente nella canzone finale, a cura degli Yes, dal titolo The ladder:
“Peace is a word we teach
A place for us all to reach
Sing as it sings to you
As it sings to me
As I will always need you inside my heart”
La pace è una costruzione, tanto quanto la memoria e l’identità. Si forgia nel tempo, e si rinforza solo tramite il non-abbandono della propria storia, la sua difesa e l’accettazione delle sue imperfezioni, l’andarci a fare i conti. La nota di speranza di questa saga è forse uno dei motivi per cui è ancora guardata con affetto da tanti videogiocatori e non solo.