Racconto di Alice Galimberti
VENTICINQUE PAROLE
“Descriviti in una frase!”.
La recruiter è seduta alla scrivania davanti a me e mi osserva, facendo scattare la penna automatica. Aspetta solo di potermi cogliere in fallo.
Da quando sono entrata in questa stanza, è almeno la quinta volta che mi chiedo cosa ci stia facendo qui – ma non ne sono così certa, potrei essermelo già chiesta qualche volta in più. Non mi è stato dato il permesso di sedere da nessuna parte. La prima cosa che ha voluto vedere questa donna è stata come camminassi, anche se la mansione che avrei dovuto svolgere mi avrebbe inchiodata a una scrivania per otto ore al giorno.
Non v’è dubbio che siamo due donne agli antipodi. Mi ha accolta negli uffici dell’azienda con i suoi tacchi vertiginosi, una raffinata camicetta in pizzo e una gonna aderente che mette in risalto il fisico tonico e slanciato; io mi sono presentata con degli stivaletti neri bassi, una camicia bianca a tinta unita e dei pantaloni grigi larghi per nascondere i fianchi e i chili di troppo su cui anni di diete e palestra non hanno sortito alcun effetto. Sto ipercontrollando il mio corpo. Evito di gesticolare, rimango ritta in piedi – stile militare costantemente sull’attenti – evito di rispondere ai commenti sul mio aspetto fisico mentre mi vengono esposte alcune clausole di politica aziendale.
Le domande che mi rivolge sono le più svariate. Il mio Curriculum Vitae non viene preso in mano nemmeno una volta; rimane inerte sulla scrivania e mi chiedo se qualcuno in quest’azienda lo abbia letto, anche solo per sbaglio. Alla richiesta di descriversi in una frase ci si aspetterebbe di vedere la persona davanti a sé crollare. Come si può ridurre una persona con le sue mille sfaccettature a una frase? Non si può; è un trabocchetto.
Nella mia mente risuonano cristalline le parole dei professori dei corsi di Scrittura creativa, Sceneggiatura e Tecniche del racconto: “Quello che conta è l’idea dietro al vostro racconto. Avete venticinque parole per attirare l’attenzione del produttore e convincerlo a leggere il vostro soggetto”. La richiesta non mi sarebbe mai stata fatta se Miss Perfezione davanti a me si fosse focalizzata sulle mie capacità e non sul mio corpo, se in futuro vorrò o meno dei figli e quale lavoro facessero i miei genitori. Questa recruiter ha passato un’ora e mezza buona a sminuirmi e umiliarmi, ma adesso entra inconsapevolmente nel mio terreno di gioco in cui so dove si nascondono le principali insidie. Non mi scompongo, anche se è forte la tentazione di incurvare gli angoli della bocca verso l’alto e rivelare un sorriso cinico.
“Beh” mi sistemo una ciocca di capelli dietro l’orecchio e intreccio le dita delle mani, inspirando con calma “Se dicessi che sono una persona determinata, con un forte senso del dovere e null’altro non verrei presa in considerazione per un prossimo colloquio”.
La recruiter annota qualcosa su un foglio e nemmeno mi guarda più in faccia. “Quindi ecco la mia risposta” proseguo senza che mi dia il permesso “Non sarò esteticamente quello che state cercando, ma vi garantisco che so trovare l’errore nel modo in cui scrivete e come migliorarlo”.
Lo sguardo della recruiter si alza dai fogli.
“Ah, ma davvero?” il suo tono è di sdegno “Ad esempio?”
“L’offerta di lavoro che avete pubblicato online, alla quale ho risposto Cercasi un’assistente con meno di 30 anni”. Le spiego senza staccare gli occhi da lei:
“La formattazione è inesistente, parla nei dettagli dell’azienda, ma non di quali sono le mansioni del candidato e quali benefits ci sono nel lavorare con voi. C’è una possibilità di crescita?”.
Per la prima volta vedo la donna davanti a me cedere all’insicurezza e reagire come farebbe chiunque fosse convinto che l’unica opinione che conta sia la sua: nega l’evidenza e attacca.
“Cosa vuole saperne lei?!” e prende il mio curriculum dall’angolo della scrivania “Non vedo nessuna laurea in marketing!”.
Sospiro, perché so già cosa sta per accadere. Mentalmente comincio a contare alla rovescia: tre, due, uno…
“Esca immediatamente da questa stanza e impari cos’è il rispetto!”.
Come volevasi dimostrare. Me ne vado con passo deciso, senza voltarmi.
Era chiaro che non sarei mai stata presa in considerazione per il lavoro e che la donna davanti a me stava cercando una scusa per accompagnarmi alla porta nel minor tempo possibile, che entrambe abbiamo comunque sprecato. Almeno me ne sto andando con stile e ho usato meno delle venticinque parole richieste dai miei professori.
Note al racconto
Dopo VideoAnalisi, eccomi a inaugurare la seconda rubrica.
Questo racconto è incluso nell’antologia nata dal concorso Scrivere è Libertà, dal titolo omonimo e acquistabile su Amazon, e nasce da diverse testimonianze e anche alcune esperienze personali. Non si deve assolutamente generalizzare, per quanto riguarda la situazione lavorativa attuale e della condizione della donna. Però è bene far sapere che, per noi donne, alcune cose che non dovrebbero più succedere succedono ancora… Non l’ho toccata piano e ne sono consapevole.
Alla prossima!