A cura di Davide Iannace
Secondo giorno di Poietika: Il diavolo veste Dante
Il secondo giorno, si sa, è sempre quello più lungo. Al lunedì si arriva tristi, ma con la carica del weekend. È il martedì quello che frega un po’ tutti.
Nel mio caso, il secondo giorno di Poietika è anche quello più lungo, nonché più impegnativo, perché celebrativo dei 700 anni di Dante Alighieri, a cui tutta la giornata finisce per essere dedicata, quasi tutta anzi. In questo caso, mi son preparato psicologicamente alla via infausta per Campobasso, resa tale dai lavori e dal traffico. Infervorato dalle mie naturali doti di esploratore – molti amici diranno doti fallite – sono deciso a trovare una strada che non abbia troppe curve.
Ho fallito. Una deviazione alla fine andava presa comunque. E anche quella era piena di curve. Alla fine, ho scoperto, il trucco era prendersela lenta, la curva. Quisquilie, direbbero gli antichi.
Il secondo giorno viene inaugurato da una sperimentazione artistica che vede insieme la voce di Chiara Guidi e il violoncello di Francesco Guerri. Un mix, questo, che serve a riportare in vita i canti di Dante sotto una nuova luce, anzi, voce. Una voce che viene mossa e smossa dall’artista, accompagnata da un solido archetto, che riprendono la violenza, la pace, ora la rabbia, ora l’amore, insita dentro l’opera del maestro toscano della lingua italiana.
È stata una strana emozione quella di ascoltare questo mix di musica e parole, perché non parliamo nemmeno di canto, ma del puro uso della parola, delle sue storture e stonature, per realizzare un percorso che accompagna fino alla fine del cammino dantesco.
Resto stupefatto, ancora di più, dalla presenza di giovani – chi attento, chi meno, ma comunque ce ne sono tanti. Era ciò che mi aspettavo da un momento come quello con Murubutu ma, onestamente, non in uno particolare come questo. Forse mi sentivo in colpa perché vedevo in quei giovani quello che io non sono stato? Avrei tranquillamente bighellonato per le vie di Campobasso, piuttosto.
Il momento della musica, del violoncello e delle voci (anche spettrali, provenienti dall’abile Chiara Guidi) hanno dato il via a una giornata completamente dedicata alla letteratura e alla sua relazione, intrinseca e necessaria, proprio con la musica. Uno spettacolo affascinante, che mi ha lasciato soddisfatto e con altissime aspettative per il resto della giornata. Resto della giornata culturale che sarebbe scoppiata da lì a circa cinque o sei ore. Il bello di essere in trasferta: hai tanto tempo libero tra un evento e l’altro. E come lo spendi in Molise, se non mangiando?
Campobasso, come sicuramente avrò già detto, è una città che non dista molto dalla mia natia Benevento e che, nonostante molti amici e conoscenti si siano avventurati tra le montagne molisane per un po’ di sana cultura universitaria, ho sempre bistrattato scientemente, senza mai andarla a visitare.
Non sapevo, quindi, né che è conosciuta come la Città dei Misteri (vi è anche il museo dedicato); né sapevo che avesse un castello e un centro storico dominato da palazzi eleganti e pregni di storia. Tanto meno che potessi trovare, proprio a Campobasso, una sottospecie di scrocchiarella simile alla pizza alla romana quella sottile, quella che a tanti amici di giù fa venire colpi epilettici. Ad esplorare una città sconosciuta, si finisce sempre per trovare qualche posto più o meno segreto che ti regala una gioia inaspettata. Il bello dell’ambiente urbano, c’è sempre qualcosa dietro l’angolo che non ti aspettavi.
Così come il vino locale. Delle chat con amici testimonieranno a mio favore che la mia idea era trovare un bar tranquillo dove scrivere con un caffè americano vicino. Il fatto che io sia finito in un wine bar con un bicchiere di rosso vicino è stata una deviazione dal percorso per nulla voluta e di cui nessuno potrà ritenermi colpevole. Anche perché, un vino rosso locale come il Tintilia del Molise meritava di essere provato e di essere comprato in casse da sei bottiglie.
Anche i bar sono specchio delle città che vanno a popolare. Campobasso ne ha tanti e di stili diversi. Io ho scelto quello dallo stile più moderno, con tavoli neri e forme spigolose per cui vado pazzo. Il vino è stato un buon compagno, insieme agli appunti della giornata precedente. Sono rimasto così tanto dentro quel bar che mi sono ritrovato nel bel mezzo delle prove della serata jazz.
È stata la pausa ideale, prima di buttarsi nell’evento dedicato alla performance artist Azzurra De Gregorio. La performance è stata l’occasione per evidenziare che esistono forme diverse d’arte che possono essere miscelate in maniera innovativa: violoncello e voce al mattino, rap e performance.
Personalmente, ho un curioso rapporto con queste forme d’arte. Di solito, le trovo abbastanza scadenti o eccessivamente pompate: vogliono trovare significati profondi laddove vi è solo un’azione banale, ripetuta sotto forme ben costruite.
Quindi, capirete, ero curioso. Mi sono messo in un angolo a guardare Azzurra lavorare al suo workshop, Macchine Umane: i partecipanti potevano esporre una propria idea circa la relazione tra arte, corpo umano e tecnologia, dopo aver discusso di cyborg e dell’effetto della tecnologia sul corpo e sulla mente umana. Ho scoperto così il profondo studio che si annida dietro le sue di performance. Certo, Dante non c’entrava moltissimo, ma c’entrava qualcosa che invece è presente nella sua scrittura: la ricerca.
Così anche Azzurra De Gregorio è una cercatrice di verità nelle in sale e pubblici diversi. Ne abbiamo parlato in una intervista che mi ha concesso, pur se presa di sorpresa (colpa mia, colpevole il pregiudizio che aveva messo in secondo piano un’artista con tanti spunti interessanti):
La mia prima domanda è come hai scelto la forma del workshop per Poietika?
La direzione artistica del festival ha scelto la forma del workshop con l’obiettivo di favorire sia l’interazione con i partecipanti intervenuti, che la creazione di uno scambio tra gli artisti ed il territorio.
Questa formula è stata concepita in considerazione delle attuali norme sanitarie, per fare in modo che i partecipanti sperimentassero il modo in cui un concetto teorico può essere tradotto in materiale scenico e performativo siamo partiti dalla creazione di un disegno, di un progetto grafico, piuttosto che da un’improvvisazione fisica o vocale.
In effetti, vedendo le tue performance, c’è un grande coinvolgimento della tua audience, come nel caso della tua performance Apparatus. Distruggi questo confine, tema di questa edizione di Poietika, tra il pubblico e l’audience. Tu come leggi questa divisione tra audience e artista? Come pensi di sovvertire tale confine?
Sì, come hai ben compreso, la mia ricerca artistica in campo teatrale e performativo è guidata da numerosi motivi ricorrenti, che reputo in qualche modo come le diverse facce di una stessa medaglia. Da un lato coinvolgere attivamente il pubblico tramite la creazione di esperienze partecipative in grado di stimolare il sistema percettivo degli spettatori utilizzando vari medium artistici (parola, suono, gesto, nuove tecnologie), abbattere la netta separazione tra audience e artisti (performer, attori, danzatori etc.). Ancora coinvolgere attivamente nella creazione di un progetto attori/performer non professionisti e ideare progetti site-specific capaci di utilizzare i luoghi al pari di elementi drammaturgici. Per fare in modo che tali spunti teorici possano trovare un riscontro anche sul piano teorico credo sia necessario semplicemente continuare a sperimentare senza avere paura né dei possibili esiti, né di commettere errori.
Una performance che esula dal luogo classico della performance in sé, quindi.
Quello che mi interessa in questa fase di ricerca è la possibilità di utilizzare la suggestione dei luoghi, sia fisici sia mentali, al fine di stimolare e coinvolgere in modo sempre più pervasivo il sistema percettivo dello spettatore, proiettandolo in una particolare dimensione spazio-temporale.
Nel corso del workshop abbiamo infatti indagato la capacità di ogni tecnologia di modificare il patrimonio genetico, intellettuale, culturale, di ogni essere umano. Secondo la mia opinione, l’arte dovrebbe essere sempre in dialogo con le scienze, con la ricerca tecnologica, con l’architettura e con tutte le nuove discipline e modalità espressive che ora sono sperimentali ma che, in futuro, potrebbero diventare consolidate. Un giorno qualcuno, stanco di un’eccessiva sperimentazione, potrebbe dire, “Torniamo nei teatri” e quello potrebbe essere un percorso innovativo. Dico questo perché credo sia sempre importante verificare la storicità della propria ricerca, mantenendo la capacità contestualizzarla in un determinato momento.
Proprio con la tecnologia, tu come ti ci relazioni? Moltissimi attori teatrali, ma in generale l’arte, popola il web ad esempio. Tu come ti rapporti con questi progetti concepiti per il web?
Credo sinceramente che si tratti nella maggior parte dei casi di esperienze poco interessanti e poco coinvolgenti. Durante il lockdown, quelle poche volte che ho guardato spettacoli e conferenze online, ho trovato difficile se non impossibile seguirle mantenendo un elevato livello di concentrazione. Il teatro, per quanto mi riguarda, non può essere scisso dal suo aspetto rituale, poiché, per essere definito tale, credo sia necessario che un determinato numero di persone si riuniscano in un luogo con una finalità comune. Essendo private del loro aspetto rituale, tali esperienze teatrali progettate per il web sono solo pallide imitazioni dell’arte originaria.
Quindi per te c’è bisogno dell’autenticità della massa. Te lo chiedo perché comunque ad oggi abbiamo visto anche i primi concerti totalmente videoludici, la trasposizione di tale massa verso l’ambito digitale e virtuale. Abbiamo prima parlato di transumanesimo, durante il workshop, e a me la mente è corsa a Blade Runner, Ghost in the Shell, Philip Dick, le relazioni uomo-macchina. Ti ci rifai anche in qualche modo alle loro riflessioni?
Sì, queste tematiche sono state oggetto della mia tesi di laurea in Filosofia Politica, capitolo conclusivo della mia laurea in Scienze della Comunicazione. La tesi, intitolata Oltre l’uomo, conteneva un’analisi approfondita di 5 film, ovvero di cinque diverse rappresentazioni del post-umano. I film sono stati infatti utilizzati come modelli in grado di fornirci differenti idee di uomo e di presentare e tematizzare i problemi, le conseguenze, i dubbi e i vantaggi, connessi all’avvento dell’era post-umana. Ciò è importante soprattutto perché quasi tutti i film analizzati (Metropolis, Blade Runner, Agente Lemmy Caution, missione Alphaville e Gattaca) sono a tutti gli effetti delle distopie, costruite cioè immaginando una società possibile e futuribile in cui gli aspetti negativi della società contemporanea alla data di produzione dell’opera sono portati alle estreme conseguenze. E dunque, in misura maggiore rispetto a film che hanno pretese realiste, le narrazioni distopiche sono condotte con la consapevolezza che, attraverso il racconto di una storia, si partecipi alla costruzione di mondi, di realtà, di significati, di stereotipi, di valori. Questa consapevolezza emerge poiché l’autore di una narrazione distopica non è mosso dall’intento di ‘fotografare’ una ‘realtà’ o una situazione esistente, ma cerca, attraverso l’accentuazione di alcuni aspetti ‘minacciosi’ che egli vede nella società di cui è contemporaneo, di prevedere le conseguenze che tali minacce potrebbero causare, di limitare i danni futuri attraverso il richiamo ad un senso di responsabilità rivolto ai fruitori dell’opera.
In questo lavoro, quindi, lo studio del rapporto tra l’uomo e le alterità non umane non ha inteso supportare la fede in un mondo fantascientifico in cui, come nell’utopia immaginata dai trans-umanisti, si crede che un giorno l’intelligenza artificiale supererà quella umana e che il cervello umano potrà essere isolato dal corpo a cui appartiene per poi essere trasferito su un supporto informatico. Molto più semplicemente, si è cercato, attraverso quest’analisi, di registrare i cambiamenti, generati attraverso l’interazione del corpo umano con le alterità non umane, che continuamente modificano e mettono in discussione la nozione tradizionale di essere umano. Si è cercato inoltre di comprendere il modo in cui alcune rappresentazioni (i film analizzati) costruiscono i significati, le definizioni, i valori, in riferimento all’evoluzione ed allo sviluppo di tale interazione.
Nel tuo futuro quindi continuerai nella tua ricerca dei confini tra uomo e macchina?
Si, come ho detto nel corso workshop, a breve presenterò presso il Teatro Bellini di Napoli un’installazione multimediale intitolata Shooting, che mi consentirà di indagare più approfonditamente tali tematiche.
Scopo del progetto sarà dunque la creazione di un dispositivo scenico capace di evidenziare il modo in cui la riproduzione e la riproducibilità della nostra immagine e dei nostri dati tramite dispositivi elettronici e digitali sia ormai una pratica costante alla quale siamo sottoposti indipendentemente dalla nostra volontà e dal nostro consenso. La tirannia della riproduzione, insieme alla crescente invasione tecnocratica, ci sottopone alla costante paura / piacere di essere catturati in un’immagine che partecipa attivamente alla costruzione della nostra identità e della nostra rappresentazione, al punto da diventare un’ossessione. Un’ossessione che culmina nel paradosso: mi fotografo – sono fotografato, quindi esisto. Attraverso questo assioma, che favorisce la creazione di uno stretto legame tra la propria immagine percepita e l’elaborazione che ne avviene attraverso l’utilizzo di strumenti e dispositivi tecnologici, emergono veri e propri processi di ibridazione. È inoltre importante specificare che il titolo del progetto intende evidenziare la violenza dell’atto di riproduzione video-fotografica, con riferimento diretto al linguaggio militare da cui ha avuto origine questo termine: Shooting è infatti ‘l’atto o il processo di scarica di un proiettile da un’arma a distanza’.
In concreto, il progetto prevede la creazione di un’installazione immersiva riproducente una sorta di set fotografico dotato di una serie di dispositivi tecnologici allestiti con l ‘obiettivo di ricreare la complessità e la varietà di stimoli che bombardano costantemente il sistema percettivo dell’individuo contemporaneo. Il dispositivo scenico avrà carattere interattivo e sarà cioè fruibile da uno spettatore per volta, mentre il resto del pubblico avrà la possibilità di osservare le immagini catturate ed elaborate durante la performance attraverso proiezioni diffuse in vari punti in dello spazio scenico.
L’obiettivo sarà evidenziare l’alienazione dell’individuo contemporaneo che si è progressivamente separato da una parte autentica di sé che ha dimenticato di vivere. Non è più l’avatar che deve assomigliare alla persona, ma la persona che deve essere all’altezza del suo avatar. È l’identità reale che è funzionale all’identità virtuale. È la vita che funge da utile narrazione per il meta- vita.
In questo caso, il workshop non è stata una vera e propria performance (vedi restrizioni COVID), ma è stato interessante vedere come i singoli partecipanti abbiano dato vita alla loro personale interpretazione della relazione tra tecnologia e corpo umano. Ancora più interessante, vedere come i giovani abbiano una visione tanto profonda quanto fondamentalmente nuova del rapporto cpon i device tecnologici. Una visione non innocente, ma diversa. C’era una grande differenza tra come un adolescente liceale la interpretasse, rispetto a persone più esperte d’arte. L’esperienza macchiava la loro interpretazione, un artificio in più rispetto ad una mente ancora incantata.
Nei giovani – e questa è la lezione del giorno – rimane la coscienza e l’incoscienza di pensare a questi rapporti in maniera quasi istintiva, aggiungendo una dose di novità alle loro interpretazioni.
Che però, va detto, non sono loro esclusiva.
Perché quando incroci Murubutu, ti rendi conto che la novità non ha nessuna età. Murubutu, in arte Alessio Mariani, è un docente di filosofia e storia a Reggio Emilia. Questo è un dettaglio che si nota già semplicemente dalla qualità dei suoi testi. È forse il principale esponente del rap didattico italiano, un rap che pone le sue fondamenta nella storia, nell’arte, nei rapporti umani, nella filosofia. Gli album di Murubutu, uno dopo l’altro, sono stati incroci di voci e generi diversi, che hanno visto la collaborazione di artisti come Carlo Corallo e Rancore.
Nel 2020 ha realizzato – insieme a Claver Gold – il progetto-album Infernum, per il quale è stato invitato alla giornata di Poietika dedicata al poeta toscano.
Confini, di nuovo, è una parola molto adeguata per Murubutu. Perché come insegnante è il confine tra la cultura e gli studenti, un confine che si rende duttile e traversabile, che facilita il contatto tra i due mondi. Come rapper e cantautore, è il confine tra la musica che produce e un pubblico che attraversa le generazioni, come è stato ben visibile durante l’evento in notturna all’ex-Palazzo GIL, una chiacchierata con Valentino Campo, seguita dal live che è valso tutto il freddo che mi son preso girando per Campobasso.
Murubutu i confini, comunque, li sconfina continuamente.
Invade campi e le sue rime invadono la mente, danno vita a profonde riflessioni che meriterebbero un paio di articoli a parte. Abbiamo parlato anche con lui, riuscendogli a strappare qualche minuto dopo le prove generali:
Direi di incominciare direttamente con una domanda sul tema del giorno, ovvero Dante Alighieri. Da poco è uscito un album bellissimo a tema Divina Commedia: Infernum. Cosa vi ha spinto a buttare giù questo album?
L’album è uscito nel marzo 2020, da un’idea di Claver. Due sono le motivazioni principali. Una è quella di Claver di rendere l’Inferno attuale, quello vissuto durante la pandemia, in relazione all’Inferno espresso da Dante. Da parte mia, è in qualche modo anche un ritorno alla lingua del padre della lingua italiana, anche una questione linguistica e non solo contenutistica.
Avete quindi reso attuale i temi di Dante. Paolo e Francesca, per esempio, lo avete riscritto per renderlo fruibile da un pubblico anche più giovane. Qual è il processo tramite cui si riesce a prendere Dante Alighieri e lo si riesce a rendere più moderno?
Diciamo che entrambi siamo artisti che operano sullo storytelling. Abbiamo oramai tecniche rodate tramite cui esprimerci. Ci siamo voluti ispirare alla cantica di Dante perché ha tanti passaggi tanto suggestivi che contemporanei, che nonostante la loro collocazione nel 1300 sono sempre in qualche modo attuali. Abbiamo fatto ciò che sapevamo fare. Prendere delle citazioni, delle ambientazioni e delle trame e metterle sui quattro quarti, che è fondamentalmente il nostro mestiere.
Spesso tu sei stato definito il maestro del rap didattico, tu che sei docente di filosofia. Il rap diviene anche insegnamento, può diventarlo quindi.
Il rap ha delle grandissime potenzialità, può essere sfruttato in maniera molto potente, e ha un modo vigoroso di esprimersi. Perché non veicolare quindi messaggi culturali, tanto la Divina Commedia, quanto contenuti di tipo filosofico, letterario, culturale.
Anche perché in Italia abbiamo Carlo Corallo – con cui hai fatto i Maestri – Claver e tanti altri, sullo stesso filone. Sembra un po’ una caratteristica nostrana del rap, rispetto quello anglo-americano che è un po’ più urbano. Il nostro è quasi più cantautorato.
Si, esatto. Ho visto che il nostro cantautorato, che abbiamo noi e non negli USA in queste forme, continua a influenzare la tradizione musicale anche nel rap, dove abbiamo il caso di rap-cantautori, come Rancore o Moder o Corallo.
Proprio in generale i tuoi album hanno avuto temi specifici ultimamente, come il mare, la notte. C’è un filo che li lega tutti in successione?
Sicuramente sono tematiche diverse, ma hanno un comune denominatore che è parlare della sofferenza umana, caratteristica anche del prossimo album, che ha un tema che non dichiaro ma che ruota sempre intorno la sofferenza, ma anche la solidarietà e l’attesa, caratteristiche che rendono l’uomo quello che è.
Stavo proprio per chiederti in effetti nel tuo futuro quali altri progetti ci fossero, ma mi godrò lo spoiler. In Infernum, ma anche in Tenebra è la notte (l’album uscito immediatamente prima, ndr.) quali canzoni, dopo averle scritte, ti sono rimaste particolarmente legate?
La Stella e il Marinaio, in Tenebra è la Notte, che è dedicata a mia madre. In Infernum, sicuramente Minosse, legata alla responsabilità etica e alla legge del contrappasso.
Gli spunti ci sono per dire che esiste un filone del rap totalmente diverso da quello più classico, a cui siamo abituati, quello di deriva anche britannico-americana. Un rap i cui esponenti popolano i loro testi di racconti d’avventura e d’amore, provenienti dalla storia antica e moderna, dalla letteratura e dalla poesia. Anche in questo caso, ancora un confine infranto, quello tra il rap e il cantautorato, tra la magia delle parole e la realtà dei fatti.
Assistere al live è stata un’emozione del tutto incredibile.
C’è un’energia nei testi e nel modo in cui Murubutu controlla il palco, gioca con le parole e la velocità, che coinvolge, domina, invoglia a muoversi al ritmo della musica e delle strofe. Brani tratti da Infernum, ma anche Notti Bianche – brano tratto direttamente dalle avventure di Dostoevskij, per citare qualcosa così, lanciata sul momento.
Nel pubblico, sia giovani che adulti: un altro confine rotto e generazioni che si mescolano, così come Murubutu miscela sapientemente i generi.
Di certo, il secondo giorno è stato tanto pieno quanto freddo – grazie Molise per le temperature gelide. Tre eventi, due pezzi di pizza, un bicchiere di vino e due interviste hanno costellato una giornata dedicata a Dante Alighieri, alla sua arte e all’idea stessa di arte. Confini che si rompono continuamente e che continueranno ad infrangersi anche nel terzo giorno di reportage.
Alla fine del reportage, credo che sia dovuto anche lasciarvi una canzone di Murubutu stesso, direi una delle mie preferite dell’album con Claver Gold, così avete qualcosa da sentire dopo questa per nulla faticosa lettura: