LIVE REPORT: Poietika @ Teatro Savoia e Palazzo GIL [CB] – 16/10/21

A cura di Davide Iannace

Il terzo giorno di Poietika: Architettura delle parole

Se il secondo giorno è stancante, il terzo come mai potrà essere? Sempre questo mi sono chiesto preparandomi ad affrontare il mio ultimo personale giorno da passare nella splendida cornice del Palazzo GIL e del Teatro Savoia di Campobasso. Oramai sicuro di me, perfettamente conscio della strada, ho osato addirittura muovermi fino alla capitale del Molise senza accendere il GPS, accompagnato soltanto dalle musiche di Murubutu – tutta colpa del concerto del giorno prima – e dal piacere di sapere perfettamente, oramai, dove stessi andando. No, questa volta non c’è ironia, perché sono giunto al luogo del primo evento senza nemmeno perdermi, riuscendo a infilare la macchina su per tutte le vie della non troppo caotica città.

 

Il terzo giorno ho la sensazione rassicurante di essere in un ambiente che oramai riconosco  che mi riconosce. Ha un sapore diverso, immergersi in un ambiente di cui conosci esattamente la disposizione. Il terzo giorno è stato forse quello in cui mi son sentito più familiarmente accolto e incluso nel grande insieme di Poietika. Piacevolmente quindi sorpreso da temperature giusto leggermente meno gelide del giorno precedente, mi sono appropinquato – che bella parola, appena presa dal dizionario della Treccani – al primo evento del giorno, ovvero il Reportage sul Patrimonio – Formare per Narrare, un evento a cura di Antonio Politano. L’idea di base di tale reportage è stato quello di aprire le porte a una serie di persone interessate a usare lo strumento della fotografia per iniziare una narrazione, una raccolta e una ricerca della bellezza paesaggistica, e non, della loro area, il Molise. Tramite l’istruzione di questo gruppo di reporter, Politano ha creato insieme ai suoi collaboratori un progetto in divenire di foto, di costruzione del significato partendo dall’occhio, unico e distinguibile, di ognuno dei fotografi inclusi nel progetto.

Antonio Politano a Poietika – Ph. Michele Messere

È stato sicuramente interessante osservare la costruzione di questo approccio dal basso, dall’occhio forse a volte ancora inesperto o naïve di chi forse non è un professionista, ma che consegna proprio per questo un’aria di novità, una freschezza improvvisa a un processo che altrimenti potrebbe avere il sapore di già visto, di già vissuto. Le diverse foto, che hanno spaziato dalla street art alla paesaggistica, al cogliere gli aspetti intimi e individuali della vita quotidiana, hanno avuto la capacità di evocare, in qualche modo, una forza quasi mistica o misteriosa che è trasversale alle terre come il Molise, bistrattate – dagli esterni, ma spesso anche da chi le vive – e in qualche modo lasciate in un angolo. La ricchezza di un reportage fotografico come quello che Politano ha organizzato è forse quella di dare un senso di esistenza a qualcosa che a volte viene dimenticata, e la mancanza di memoria nega il principio d’esistenza stessa. In questo caso, ho letto molto il tema confini, trasversale a tutto Poietika nella sua sesta edizione, proprio nelle fotografie e negli occhi di chi ha fotografato da un lato all’altro questa terra.

 

Il tema dei confini torna prepotentemente anche nell’evento subito successivo, il dialogo a cura di Michele Porsia con Matteo Pericoli. Pericoli è un personaggio interessante, che a dispetto di altri, avevo già avuto modo di conoscere in passato per via del suo lavoro. Matteo Pericoli nasce come architetto ma ben presto è diventato qualcosa di più, autore di libri, disegnatore soprattutto e fondatore del Laboratorio di Architettura Letteraria. Cos’è? Me lo sono chiesto anche io, e prima di continuare, quello che conta di più sono forse proprio le parole di Matteo Pericoli, che sono riuscito a intervistare proprio dopo le due ore di dialogo che ho avuto modo di ascoltare tra Porsia e Pericoli.

La nostra prima domanda è: lei è disegnatore, insegnante, architetto, un po’ di tutto. Di queste diverse anime, qual è quella che a modo suo forse le occupa più tempo e risorse?

Il problema delle caratteristiche escludenti è che è difficile scegliere, se ce ne fosse solo una che sentissi mia la sceglierei. È un pochino problematico. Quando faccio i disegni, sono disegnatore, quando insegno, sono insegnante. La risposta è, non so, perché non saprei cosa dire.

 

Che a modo suo è un’ottima risposta, perché possiamo dire che siamo ciò che facciamo.

L’importante è essere sé stessi, e a volta si manifesta, banalmente, con un autobus che stai per perdere, tu che corri e sei corridore.

 

Un’altra domanda è sul tema dell’architettura letteraria, cosa si intende con questo termine?

Sinesteticamente sono sempre stato curioso, perché spesso si usano i termini architettonici per descrivere la narrazione: architettura del romanzo, del testo. Io, nella lettura come tutti di cose letterarie che funzionano, si ha l’idea che è un modo funzionale di farlo. Il salto è stato, dieci anni fa, di chiedere a studenti di scrittura creativa, di creare plastici dell’architettura di un romanzo. Oltre alle parole che si manifestano, anche l’essenza del romanzo, dell’architettura, rendere manifesto quindi una serie di conoscenze che noi abbiamo e che spesso nemmeno abbiamo modo di attingerne.

 

La città, tecnologia, che impatta – smart city, la città dei quindici minuti. Qual è la tua idea? Come hai visto, come architetto e artista, veder la tecnologia impattare sullo spazio urbano?

Una cosa sicura è che, per esempio, lo vedo già su di me, l’utilizzo della navigazione assistita con la vocina che dice dove andare, è il modo con cui allunghi i tempi di conoscenza di una città, non ti fa impadronire del luogo perché ti affidi a qualcosa che ti aiuti. È un’occasione persa, rispetto alle mappe, al perdersi, al guardarsi in giro. Ci fa perdere l’idea di orientarci. Per andare da A a B, il navigatore mi ci porta e perdo quindi questo rapporto col tutto. Le migliorie della tecnologia io invece le apprezzo. Come quando introdussero la lettura sul tablet e si parlava dei tablet e non della lettura. Il punto è che se le storie ci sono da produrre, s le città han tanto da dare, la tecnologia ci aiuta in qualche modo. Al contrario, però, ci sono abilità che vengono impattate – come quella dell’orientarci – che rischiano di esserne al contrario annullate.

Michele Porsia e Matteo Pericoli a Poietika – Ph. Michele Messere

Matteo Pericoli non è nuovo alla sperimentazione, al prendere ciò che in apparenza può sembrare banale o scontato, come partire da una metafora architettonica applicata ai libri per rivoluzionare il rapporto delle parole e delle costruzioni. Ma non solo, perché altrettanto interessanti sono i lavori di Pericoli con le finestre e con le rappresentazioni urbane. La prima che viene in mente è quella di Manhattan Unfurled, una rappresentazione dei due lati dell’isola di Manhattan, lo skyline della città di New York, raffigurata nel 2001 con precisione e maestria in questo libro. Progetto che ha poi ispirato Skyline of the World, un progetto commissionato dall’aeroporto newyorkese JF Kennedy, di circa dodici metri, in metallo, in cui gli skyline di diverse città si vanno miscelando.

Ci sono poi i suoi due libri, il secondo presentato proprio a Poietika, The City Out My Window Windows on Elsewhere, quest’ultimo in collaborazione con Amnesty International. L’idea è stata quella di prendere le finestre, oggetto per eccellenza delle strutture umane dall’alba dei secoli, e rendere rilevante ciò che contengono, che è di per sé l’esterno. C’è questa inversione in Pericoli, in cui il contenuto della finestra, ciò che l’occhio riesce a vedere, viene ridotto divenendo più piccolo della lente – la finestra – nonostante sia chiarissimo che ciò che è fuori la finestra è enorme, sconfinato. Il confine viene disegnato dal legno degli infissi e dai vetri, creando questo divario tra il mondo interiore e il mondo esteriore. È un modo diverso di guardare alle cose, lo ha affermato più volte Pericoli, quello di guardare attraverso la finestra, un oggetto che pur è comune nelle case, ma spesso così poco in qualche modo pensato.

È particolarmente interessante poi quando a queste finestre, nel progetto Windows on Elsewhere, si unisce la visione del migrante e del rifugiato, la visione di chi le proprie finestre in qualche modo le ha dovute abbandonare. Diviene una meta-narrazione, in tal caso, lo spettacolo del mondo dietro i vetri diviene l’emblema di un sogno, di un passato, ma anche di un desiderio verso il futuro. La presentazione, per quanto possa essere stata forse lunga, è stata anche di ispirazione, l’idea di prendere qualcosa di aspettato, di comune a tutti, e poi trasformarlo in un passaggio quasi mistico verso nuove realtà.

 

Sulla stessa scia, personalissima opinione, si configura anche lo splendido concerto di Teresa Salgueiro, a me prima sconosciuta – pecco di ignoranza ancora in tante cose – ma che, dopo averla vista nella scenica cornice del Teatro Savoia, difficilmente rimuoverò dalla mia playlist di Spotify. Trent’anni di carriera alle spalle, già voce dei Madredeus, gruppo storico portoghese, la Salgueiro era attesissima a Campobasso, ma anche in Italia, dopo molti anni d’assenza.

Teresa Salgueiro al Teatro Savoia, per Poietika – Ph. Michele Messere

Come ho specificato all’inizio, ero ignorante, totalmente, follemente ignorante di ciò che avrei ascoltato da lì a poco. È sempre difficile parlare di un concerto, perché ciò che le note e le voci fanno spesso non può essere traslato su carta e inchiostro. Descrivere il concerto è quindi, di fatto, quasi impossibile. È un mix di sensazioni, di impulsi scatenati dalle chitarre, batterie, dal violoncello sullo sfondo, del fumo che viene propagato nel teatro, misto alle luci che donano e danno l’atmosfera giusta ad ogni singola nota, o forse ogni singola nota dona la giusta atmosfera a quelle luci.

 

C’è un legame imprescindibile, nella mia modesta opinione, tra l’ambiente in cui una musica si propaga e quella stessa musica. I luoghi si possono trasformare grazie a due, tre note ben strutturate e studiate, messe lì a disposizione degli astanti. In generale, credo nel forte potere della musica di ergersi ad arbitro, di dividere un buon film da un grande film, un momento emozionante da un momento epico. La musica della Salgueiro ha questo mistico potere di trasformare l’ambiente intorno a sé, di renderci protagonisti di un viaggio che attraversa le frontiere, i confini dei popoli e della musica con contaminazioni, anche strumentali, di universi diversi, dalle due sponde dell’Atlantico e le diverse sponde del Mediterraneo. Richiami alle musiche degli scorsi secoli portoghesi, le influenze di cantanti e autori più moderni, il sapiente sfruttamento delle corde contemporanee per richiamare strumenti classici e stili come il fado, fanno del concerto di Teresa Salgueiro un incredibile mix sensoriale che è difficilmente replicabile, per esempio, alla radio. È quell’insieme piuttosto di scenografia, interruzioni, pose della cantante stessa, che donano al palco una nuova dimensione che è più della sua musica, ma che ne abbisogna per creare uno spettacolo nel vero senso della parola.

Anche in questo caso, il confine è presente. Non solo nei testi, che possono parlare spesso di temi a metà, tra mondi e universi diversi che si incontrano e scontrano. L’uso degli strumenti e della musica taglia i confini tra i generi, tra la musica antica e quella contemporanea, tra stili diversi e da soprattutto influssi diversi. Non ho potuto non legger nelle canzoni provenienti dall’ultimo album, O Horizonte (2016), uno stile che mi ha richiamato quella Loreena McKennitt, quello stile delle musiche mediterranee – che vuol dire arabe, greche, italiche e francesi – questo mix che è esotico, e allo stesso tempo ha un che di perennemente familiare.

Ecco, al concerto della Salgueiro, in fondo si ha la sensazione di essere forse come nel salotto di casa, o forse nel bar di paese, quelle voci che ti richiamano in qualche modo al senso originale dell’esistere, a quel senso di quiete e di calma che tendenzialmente ritroviamo nei luoghi familiari.

Teresa Salgueiro al Teatro Savoia, per Poietika – Ph. Michele Messere

Diviene quasi fastidioso, poi, uscire fuori, vedere finito quel concerto e ritrovarsi improvvisamente nel mondo reale, lontani da casa.

Il viaggio che si fa durante il concerto di Teresa Salgueiro è davvero unico, motivo per il quale questo articolo, il penultimo dedicato a Poietika – manca uno speciale, tutto per voi – non si può che concludere proprio con una sua canzone, proveniente dall’ultimo album O Horizonte [Inserire canzone].

Quali somme tiriamo da questa giornata? Che, innanzitutto, un evento come Poietika finisce per essere molto più della somma delle sue parti, dei singoli eventi, ma piuttosto diviene in qualche modo un percorso, in cui si viene condotti pian piano, tramite musica, performance, parole, architettura, un loro elegante mix. In questo caso, condotti sul tema del confine e al confine tra le parti, tra i mondi. Si sono incrociati a Poietika artisti di calibro internazionale, come Pericoli o la Bruder, insieme a persone i cui contributi provengono proprio dalla realtà locale, come nel caso di Michele Paladino e di Azzurra De Gregorio. È quello che ti aspetti da un evento tale, da un insieme tale di forme d’arte, ed è soprattutto forse l’aspirazione che dovrebbe avere qualsiasi evento culturale. Essere un percorso capace di arricchire i suoi partecipanti, di qualsiasi età. Sfidare le convenzioni, soprattutto, essere capace di mettere in crisi le aspettative, e far incrociare il fado portoghese con il rap di Murubutu, con la voce di Chiara Guidi. Molto, soprattutto, penso lo si debba a coloro che lo hanno pensato e ideato, come Valentino Campo, protagonista della sorpresa del prossimo pezzo.

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