Intervista di Gianluca Clerici
Racconti di vita, racconti presi in prestito dalla vita quotidiana visto che il suo mestiere – quello vero direbbe il vecchio saggio anticultura – è fare lo psichiatra, in trincea, in prima linea. E chissà che palco naturale è tutto questo per un cantautore che dedica la sua lirica e la sua ispirazione all’uomo e alle sue tante maschere. Lui è Schiamazzi, che decide di restare senza volto e senza nome di battesimo proprio per un distacco dal mondo reale. E poi Schiamazzi è questo lavoro, questo Ep digitale, questa raccolta di istantanee umane di vita quotidiana. L’allegoria è dietro l’angolo, sempre e comunque. A lui le consuete domande di Just Kids Society:
Iniziamo sempre questa rubrica pensando al futuro. Futuro ben oltre le letterature di Orwell e dei film di fantascienza. Che tipo di futuro si vede oltre l’orizzonte? Il suono tornerà ad essere analogico o digitale?
Credo che il suono seguirà la stessa direzione di qualunque altro settore e ambito: la velocità, la fruibilità, ma soprattutto la possibilità di generare guadagni. Tutto quello che è immediato, vendibile o che può generare profitto più rapidamente è destinato ad avere la meglio in termini di numeri e sviluppo rispetto a ciò che ha costi maggiori e tempi più lunghi. Tutti i cambiamenti o quasi sono andati in questa direzione e non riesco ad immaginare una contro tendenza per quanto riguarda la musica. Sarà piuttosto il nostro orecchio ad adattarsi, come ci siamo abituati al passaggio da vinile a CD e poi da CD a mp3.
I dischi ormai hanno smesso di avere anche una forma fisica. Paradossalmente torna il vinile. Ormai anche il disco in quanto tale stenta ad esistere in luogo dei santi Ep o addirittura soltanto di singoli. Anche in questo c’è un ritorno al passato. Restiamo ancora dentro al futuro: che forma avrà la musica o meglio: che forma sarebbe giusta per la musica del futuro?
Non saprei dire quale dovrebbe essere la forma giusta per la musica del futuro, immagino che la struttura attuale con le piattaforme di streaming a basso costo abbia una solidità tale da impedire grossi cambiamenti nel brevissimo tempo. Quello che auspico è una diffusione della musica di qualità e degli artisti interessanti più organica, meno dettata dall’alto. Che siano le major con campagne promozionali top-down o playlist ad altissima rotazione con gli stessi artisti che si alternano ad ogni nuovo singolo, a volte ho l’impressione di ascoltare non quello che vorrei ma quello che mi viene costantemente proposto da altri. Non dico che questo non sia evitabile con un minimo di cultura musicale e con un po’ di curiosità, però sicuramente non è favorito e agevolato.
La pandemia ha trasposto il live dentro incontri digitali. Il suono è divenuto digitale anche in questo senso… ormai si suona anche per interposto cellulare. Si tornerà al contatto fisico o ci stiamo abituando alle nuove normalità?
Su questo credo non ci sia storia e che nessuno possa dire il contrario. Questa lunga fase di musica suonata in streaming è, e deve essere, solamente appunto una fase. Una parentesi “necessaria” della nostra vita, che tendiamo a dimenticarci ogni volta che torniamo sotto il palco. Chi ha partecipato ad un vero concerto recentemente (vd Cosmo a Milano) sa perfettamente a cosa mi riferisco
Ed è il momento di parlare di questo lavoro di Schiamazzi. Un lavoro noir, scuro, intimo, in bilico tra rap e canzone d’autore. Un lavoro introspettivo che indaga dentro liriche mai immediate e scontate. Dunque come si inserisce dentro una scena ampiamente devota alla musica leggera digitale, immediata e quasi sempre densa di contenuti superficiali?
Spero trovi un posto tranquillo per non sentirsi fuori luogo, dove chi vuole può rifugiarsi, ascoltarlo e riascoltarlo notando magari qualcosa di diverso ogni volta. Sono convinto che la diversità sia un punto di forza, anche nella musica. Il problema è quando si fatica a scovare nel mare magnum di musica leggera e immediata qualcosa di diverso.
E poi tutti finiamo su Spotify. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Questo è un grande paradosso, come se pur di essere fruibili e disponibili si sia disposti a cancellare il lavoro, appunto, che ha portato a quel prodotto. Spotify genera moltissimi paradossi, come pagare per vedere salire il contatore degli ascolti senza sapere da dove provengano quei numeri, o essere inseriti in playlist e ottenere ascolti più che ascoltatori. Si legge ovunque “ascolti reali” o “visualizzazioni reali”. Mi chiedo quanto di questo non sia fatto per autocompiacimento o semplicemente per costruire un falso sé, fatto di numeri che non rispecchiano un pubblico interessato a un progetto. Sicuramente non cedere a queste tendenze è frustrante perché porta a confrontarsi con con un divario tra artisti enorme.
Dunque apparenza o esistenza? Cos’è prioritario oggi? La musica come elemento di marketing pubblicitario o come espressione artistica di un individuo?
Fare dell’idealismo porta inesorabilmente a “razzolare male”. Mi sento di essere realista e dire che per arrivare si deve anche scendere a compromessi, trovare un giusto equilibrio tra quello che può essere un elemento puramente pubblicitario e una difesa di quella che ogni artista può considerare la propria essenza, che spesso non ha nulla a che vedere né col marketing né con la pubblicità.
A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Schiamazzi, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Bellissima domanda, non c’ho mai pensato e ora che l’ho fatto sono convinto che non potrò più farne a meno: vorrei “Tempo para cantar” di B Fachada.