A cura di Davide Iannace
La speranza è un motore
Ci sono giochi su cui si spenderanno almeno un centinaio di ore della propria vita e giochi che, come quello di cui parleremo oggi, ne faranno spendere meno di cinque. Nonostante siano così contenuti come tempo speso, i secondi passati su Far: Lone Sails, sono tutti ben spesi. La trama del gioco è, in realtà, molto semplice. Ci si ritrova catapultati in un mondo prevalentemente monocromatico, in cui dominano il nero, il grigio, il bianco. E poi il rosso e il blu – il rosso, il colore dei tasti da premere, della nave della protagonista, il rosso del suo vestito – e blu del poco mare che si vede e intravede, dell’energia che muove la misteriosa nave su ruote e a vela che la protagonista ha progettato con il padre, di cui si intravedono foto, la tomba, il sogno di far viaggiare questa nave verso una meta sconosciuta.
La storia, di per sé, è racchiusa in queste righe. Una ragazza dal cappotto rosso – che fa anche da paracadute quando si vuole sfidare la gravità – e una sottospecie di locomotiva-barca a vela, alimentata da casse e composti che si trovano lungo la via. Via che è, di fatto, un mondo in rovina, privo quasi di ogni traccia di vita, ma popolato dalle gigantesche macchine rimaste baluardo di quella che un tempo appariva come una fiorente civiltà meccanizzata, vivente su macchine enormi, a vapore e a vela, che univano un mondo sull’orlo oramai della catastrofe.
La metafora ambientalista è ben presente nel post-apocalittico scenario del gioco, dove la natura fa da padrona e da mostro, lentamente mangiando, cancellando, le tracce dell’umanità che un tempo popolava il mondo. Vulcani, tornado, sabbia e vento occuperanno gran parte dello scenario, volta dopo volta, ora come puro elemento estetico, ora come grande motore di piccole svolte di trama e di danni alla propria nave. Un mondo che la protagonista attraversa in completa solitudine, accompagnata dal vento, dalle note delle musiche curate da Joel Schoch e dai rumori meccanici della nave, del legno scricchiolante, della sabbia e della terra alzata dalla pesante ruota di metallo.
Il gioco, che termina dopo le mille peripezie della ragazza in rosso sulle rive di ciò che rimane del mare, accendendo quello che sembra l’ultimo faro mentre la notte avanza, può essere letto in molteplici modi. Da un lato, sembra essere una rappresentazione della fine dell’adolescenza. Esattamente come il nome ricorda la navigazione in solitaria verso sponde lontane, così la transizione dall’età della fanciullezza a quella della maturità – marcata dalla morte della figura cardine, il genitore in questo caso – viene rappresentata dal viaggio dalla casa dell’infanzia verso l’oriente sconosciuto, tra gli echi della vita passata, i giochi e le fantasie, fino al raggiungimento della sponda, della finale transizione nella maturità.
Ancora, si può leggere il viaggio compiuto nella realtà come la metafora della Speranza, intesa nel senso più largo del termine. La morte di inizio gioco diventa il motore metaforico che ci spinge nel viaggio, alla ricerca di qualcosa che non ci viene ben identificato all’inizio – ci sono indizi, certo, che è proprio l’acqua che andiamo cercando, ma nessuna prova certa fino al minuto finale. C’è la speranza di un padre verso la figlia, la costruzione di un mezzo – la nave protagonista insieme alla ragazza – e la necessità di spingere con ogni mezzo necessario e possibile tale strumento fino alla fine, fino alla sua dismissione una volta terminata la sua funzione. La speranza di dare quella scintilla finale, quell’opportunità di un futuro migliore che, alla fine, è l’idea finale di ogni salto e scambio generazionale.
Far: Lone Sails, è un gioco che personalmente trovo che parli proprio di speranza, nel senso più largo del termine. È un viaggio ambientalista, in cui la ricerca della natura – dell’acqua, dell’oceano brodo primordiale e della vita, diventa la ricerca delle radici e del passato, nella speranza di. E si tronca, perché di fatto di cosa si spera di trovare, nulla viene detto né tantomeno specificato. Quelle poche tracce non bastano per disegnare un vero, tratteggiato, motivo. Il movimento, in questo caso, è lasciato tutto al giocatore. L’ho ritenuta una scelta saggia, perché tutti si ritroveranno all’interno di Far: Lone Sails con un motivo molto chiaro per viaggiare. È per ripetere la parabola ambientalista, il percorrere la caduta di una civiltà sul suo ego. È la metafora di una promessa fatta su un letto di morte, o forse di una promessa fatta a sé stessi. Quella di affrontare il viaggio, qualunque sia la destinazione, qualunque siano le difficoltà che si incroceranno, ma con la speranza che alla fine tutto avrà un senso, che alla fine del percorso si troverà una luce, raffigurata quasi letteralmente dal fato di fine gioco.
Il gioco di per sé si riempie di senso nel momento in cui il giocatore ha la possibilità di riempirlo. In questo caso, la lettura che lo sviluppatore sembra avergli voluto dare è: c’è sempre un Motore per qualsiasi viaggio. La Speranza è un motore? Sembrerebbe di sì. La speranza di sconfiggere il senso del nulla, l’azione quindi come atto super-umano in sé per sé, come se l’applicazione della filosofia di Nietzsche si ritrovasse in qualche modo proprio nel bidimensionalismo del gioco stesso. Come il filosofo tedesco parlava del nichilismo come di un vuoto che, però, alla fine spinge all’azione, all’atto, alla potenza, così anche in Far: Lone Sails, nel vuoto sembra trovare spazio l’azione fino alla vita.
Di per sé, è una lezione fondamentale quella che, dopo poche ore di gioco, già sembra di essere propria. La lezione che la speranza è un motore, che necessita di un costante atto – che sia d’amore, o di puro sforzo – per essere alimentato e per esser continuato. Così il viaggio, tra le varie peripezie, continua un po’a volte per quel soffio di vento fortunato che permette alle vele di dare energia dove altre fonti di carburante non ce ne sono. Altre volte, è proprio la protagonista a caricarsi con un cavo la nave-locomotiva, spingendola tra la sabbia e le rovine del devastato mondo. Altre volte, si lascia che sia la nave a guidarci, lasciando che ci sia solo fumo alle spalle, e tracce subito dismesse da altre raffiche, lasciando che sia la speranza stessa a guidare il suo viaggio verso l’oriente distante.
Far: Lone Sails fa rimanere con un senso di stranamente compiuto. Riempie, in qualche modo, giocarci. Riempie la mente di diverse idee, di diverse interpretazioni, di aver compiuto – o fatto compiere – un piccolo passo alla piccola, rossa, protagonista e alla sua locomotiva. Allo stesso tempo, si ha la sensazione che lo sviluppatore volesse lasciare anche qualcosa al giocatore, la sensazione che il viaggio compiuto possa essere un piccolo passo, fondamentale, nel viaggio di quella che è la vita quotidiana di chiunque.
Pessoa disse “La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.”. Così, anche Far: Lone Sails è ciò che il viaggiatore fa di quei comandi, quelle azioni semplici e ripetitive compiute lungo le poche ore di percorso. Speranza? Transizione? Ecologia? Possono essere tutte e vere e tutte altrettanto false, nel momento in cui le si vuole rendere tanto vere quanto false.
Ciò è forse valido per ogni gioco, per ogni prodotto culturale. Le intenzioni dell’autore rimangono utopiche nella possibilità d’essere comprese, ed è spesso ciò che una persona sente dell’opera in sé a rendere questa più o meno speciale. La speranza che sotto-intende Far: Lone Sails, è di intraprendere il viaggio, ovunque bisogni andare. Un invito a compiere il salto, quello della partenza, di vedere fin dove si possa arrivare. Di fermarsi, in un certo momento, dopo tutte le fatiche compiute, e poi, ancora, di riprendere, e viaggiare ancora. Perché, di fatto, non ci si ferma mai. Quella forse è la principale speranza, che non ci sia mai davvero la fine di per sé, ma pause tra un viaggio e l’altro.
Noterete che, tra i tanti, questo è un pezzo forse più breve. Ha più senso che lo sia perché Far: Lone Sails, è un piccolo pezzo del puzzle che, giocandolo, aggiungerete alla vostra anima. Ci si spenderà poco tempo, ci si spenderà davvero poco tempo e lo si prenderà velocemente, come un bel libro corto, forse, devo dire, come una raccolta di poesie brevi, che scorrono, ma lasciano il segno. È una strana sensazione, ma forse per questo è ancora più affascinante. È un viaggio che sembra solo in apparenza lento, sostenuto dalle musiche che splendidamente incorniciano il movimento ritmato della nave, del motore a vapore e delle sue vele mezze rotte.
Per questo, basta un pezzo piccolo per parlarne. È un viaggio breve, che però scava nel profondo, e aiuta a ricordarsi che a volte, davvero la speranza è un motore o un’ancora – ma della speranza come ancora, ne riparleremo – e che tanto basta, per prendere un paio di foto e cercare, anche noi, il mare ad est.