Quayola. L’arte di codificare la bellezza
Difficile è raccontare quello che si prova quando si visita una mostra.
È spesso quella combinazione unica di udito, tocco, vista, perfino di odori, a volte di sapori, che rende l’esperienza unica. Raccontare una carbonara mangiata in osteria sotto il cocente solo di agosto, a malapena rasserenati dal suono caldo delle gocce di Fontana di Trevi, sarà difficile proprio perché quella carbonara esiste in un unico tempo e spazio.
Visitare Quayola. Re-Coding, ospitata fino al 31 gennaio al Palazzo Cipolla di Roma, fa affrontare le stesse difficoltà che può avere il raccontare bene un piatto. Perché proprio un pasto? Perché la mostra, che si trova al centro della città, nella cornice di Palazzo Cipolla grazie a Fondazione Terzo Pilastro – prodotta da Poema in collaborazione con Comediarting e Arthemisia, curata da Jérôme Neutres e Valentino Catricalà – è un mix sensoriale unico. Una combinazione che tocca l’occhio e l’orecchio, ma al contempo sfida la mente.
Quello che Quayola– artista romano classe 1982 – mette in mostra a Palazzo Cipolla, è l’unione dell’arte matematica, del recoding, dell’algoritmo, miscelati sapientemente con l’arte stessa, con l’osservazione della natura, con la scultura classica. L’opera che troneggia appena entrati, Laocoonte, è l’inizio di questo viaggio attraverso una forma d’arte mista che, dal classico, punta non solo ad innovare, ma a stupire, a spaventare, a mostrare i limiti della concezione umana di ciò che è arte ed è tecnico e smontarlo, sotto gli attenti riflettori delle IA e del codice informatico.
Il Laocoonte di Quayola – che diventa Laocoön #D20-Q1 – è una statua che si erge in marmo e resina da poliedrici e matematicamente, finemente scalfite forme geometriche che formano la base di partenza della statua stessa. Il blocco di marmo è la forma esterna, che si rompe a metà tra la statua – classicamente intesa -mitologica greca, e invece le forme geometriche frutto della computazione informatica.
Questo mix tra arti antiche e trasportate nella realtà permea tutto il lavoro di Quayola. Dagli Unfinished Work ai lavori sul pointillisme, Quayola reinventa la realtà artistica e lo fa tramite le nuove lenti dell’algoritmo – nuove, a modo loro, nel modo in cui l’artista romano le sfrutta. C’è qualcosa di stregante nel modo in cui i poligoni escono letteralmente fuori dagli spazi degli artisti. Vedere Giuditta che decapita Olofene, di Artemisia Gentileschi, reinventato tramite i poligoni e i nuovi spazi offerti dal colore che diviene forma geometrica, è a dir poco incredibile.
Il lavoro svolto da Quayola è sicuramente all’avanguardia nel mischiare le arti classiche, come la scultura classica e la pittura, con un approccio totalmente permeato nel mondo digitale. Cosa che permette di offrire degli interessanti spunti di riflessione a qualsiasi visitatore.
L’algoritmo qui diviene scalpello, nelle abili mani dell’artista-programmatore.
Ma nel momento in cui l’algoritmo prende la forma fisica – ma, perché no, anche quella digitale – l’artista rimane il programmatore o, nella realtà, gli strumenti guadagnano un nuovo livello di complessità che li porta a un passo diverso sia dall’autore che dallo strumento classicamente inteso?
È una discussione che in futuro dovremo rivedere, risentire, riosservare molto spesso, proprio grazie ad artisti come Quayola, che hanno iniziato a mescolare il suono, le immagini, la robotica, per dar vita a processi del tutto nuovi e innovativi.
L’uso dei poligoni all’interno dei quadri, grazie alla serie di lavori svolti su altre opere d’arte, come la già citata Giuditta che decapita Olofene, offre uno squarcio sulle possibilità future di miscelare l’algoritmo con la tecnica pittorica. Nel caso della mostra di Quayola, viviamo solo il passaggio tramite cui dall’opera d’arte originale estraiamo i poligoni stessi che poi riformano l’opera stessa.
L’analisi del colore e delle forme geometriche – nascoste, ma pur sempre presenti in qualsiasi opera umana e non – permette di generare una seconda forma d’arte, un secondo quadro, derivativo del primo, che è in qualche modo la sua anima sotto una seconda forma. Di fatto, Quayola nelle sue opere non genera da zero, ma genera qualcosa di diverso. La sua tavolozza dei colori è un’altra opera, certo, ma è pur sempre un punto di partenza per la costruzione di qualcosa di decisamente nuovo, diverso. In questo senso, Quayola sembra ridipingere l’arte altrui, tramite l’uso dell’algoritmo. Sembra riuscire a estrarne l’essenza, analizzando la forma e il colore, creando dei nuovi sistemi visivi che assumono la forma di poligoni generati dalla matematica. Lo stesso principio, di per sé, lo applica ricostruendo il pointellisme del XIX-XX secolo con l’uso dell’osservazione naturale, l’uso di LiDAR e della semplice matematica per creare delle opere d’arte del tutto originali.
Chiaramente, si può parlare a lungo dell’uso della matematica applicata, ma la comprensione forse, più che dalla descrizione, arriva dal vivere una mostra simile. A Roma finirà il 31 gennaio, con la speranza di rivedere presto le opere di nuovo in un contesto come quello di Palazzo Cipolla, dove la commistione tra il futuro della matematica e il passato delle eleganti, umane, forme di colonne e statue, che hanno una loro matematica che prende però forma in maniera differente.
Geometria e matematica, questo è l’insegnamento di Quayola, sono già nelle opere d’arte, in attesa di essere estratte pezzo per pezzo dalle vesti di Olofene e dal trauma di Laocoonte e della sua lotta.
La visione di Quayola rappresenta comunque non un punto di vista unico. La media art conquista sempre di più spazi all’interno del panorama artistico contemporaneo, e deve essere fregio catturarne un po’ l’essenza anche in una città che rimane spesso ancorata ad un’arte che possiamo definire vecchia scuola, qual è Roma. Ha già avuto le sue rappresentazioni, anche all’interno del mondo videoludico.
Non può che sovvenire, osservando la forma poligonale con cui l’artista ricostruire le opere d’arte, il lavoro svolto dai disegnatori di Eidos Montreal con i loro due capitoli della fortunata saga Deus Ex, ovvero Human Revolution e Mankind Divided. Senza soffermarci sui giochi, che meriteranno in futuro i loro articoli, nella componente artistica ho notato molte somiglianze tra lo stile dei giochi che riprendono proprio forme simili a quelle di Quayola. In particolare, la rappresentazione delle opere, spesso riviste attraverso forme matematiche, coadiuvate anche dall’essere dentro un videogioco, ambiente digitale par excellence. Non differentemente dall’artista romano, anche nel videogioco si analizza il rapporto dell’uomo con la scienza, l’arte, la matematica. Quayola lo fa ricostruendo le opere d’arte, il gioco ricostruendo il rapporto tra l’uomo e il suo essere umano.
Nell’arte contemporanea, la relazione tra scienza ed arte diviene, sempre di più, un legame bidirezionale, in cui la costruzione dell’opera d’arte riprende le forme della matematica, dell’algoritmo, del calcolo, del robot. Allo stesso tempo, la scienza trae dall’arte l’estetica, la forma, la capacità di adattarsi ai contesti diversi. Architettura e ingegneria, design e progettazione, diventano facce della medesima medaglia.
Quayola lo ha fatto risaltare nelle sue opere. Lo mostra, mettendo in luce, scoperti, i processi creativi.
Mette in luce il robot-scultore che con la perizia umana e una pazienza inumana, costruisce forme discrete e indefinite, mai finite, di opere d’arte che assumono perfezioni a modo loro aliene, diverse, ma che richiamano al desiderio stringente della creazione e della genesi. Se ne parlerà sicuramente ancora a lungo del lavoro di artisti simili. Lo vedremo sicuramente ancora grazie a Quayola, ma sospetto che lo vedremo in tutto il filone della media art, non solo nella scultura e pittura, ma sicuramente nel design, sicuramente nel mondo artistico anche videoludico e filmografico e, sempre di più, nel mondo della musica – dove il legame tra matematica e musica è oramai ben instaurato.
Se siete a Roma, di questi giorni e fino al 31 gennaio, vale la pena fare un salto a vedere a Palazzo Cipolla questa mostra. È a dir poco consigliata.