Intervista di Gianluca Clerici
Un esordio decisamente distante dal solito sentire indie pop che trattiamo dentro queste pagine di cultura musicale, nazionale e internazionale. Qui siamo proprio dentro perimetri apolidi di cultura musicale, di oggetti raffinati, di forme prive di regole dedite alle mode e al commercio. Siamo nell’espressione che ha l’unica forma utile alla ragione: se stessa. Compositore e chitarrista classico, Andrea Cavina dedica allegoricamente 10 lettere a 10 persone importante dell’arte e della cultura mondiale. Lettere che sono composizioni che a loro sono dedicate… un disco di sola chitarra classica che inevitabilmente sfida ogni tipo di attenzione, sfida ogni moda e ogni forma conosciuta. E non a caso lo stesso Cavina chiude con una intelligente provocazione su quelli che definiamo classici o meno… nella lettura tutta nostra, l’ignoranza musicale ormai impera sovrana e dischi come “10 Lettere” rischia di confondersi nel mare magnum dell’eterna distrazione coccolata soltanto dalle mode facili e immediate. Noi indaghiamo con immensa curiosità, anche e soprattutto da un punto di vista sociale con le nostre consuete domande di Just Kids Society.
Iniziamo sempre questa rubrica pensando al futuro. Futuro ben oltre le letterature di Orwell e dei film di fantascienza. Che tipo di futuro si
vede oltre l’orizzonte? Il suono tornerà ad essere analogico o digitale?
Com’era il detto? “Fammi indovino e ti faccio ricco!” L’umanità ha sempre avuto paura del futuro e ha cercato modi per “prevederlo”, o quanto meno anticiparlo. Mi ricordo un corso di all’università in cui si parlava di previsioni di mercato e di come in realtà spesso l’idea che le persone avranno bisogno di qualcosa in futuro, crea il bisogno stesso.
Tornando a noi, nella mia esperienza ho creato un prodotto digitale, partendo da uno strumento fisico e antico come la chitarra.
Non ho idea di come sarà il futuro, ma di certo, se si cerca qualcosa di nuovo è importante dialogare con il passato, in modo da avere una storia da raccontare a supporto della propria creazione.
I dischi ormai hanno smesso di avere anche una forma fisica. Paradossalmente torna il vinile. Ormai anche il disco in quanto tale stenta ad esistere in luogo dei santi Ep o addirittura soltanto di singoli. Anche in questo c’è un ritorno al passato. Restiamo ancora dentro al futuro: che forma avrà la musica o meglio: che forma sarebbe giusta per la musica del futuro?
Anche questa è una domanda difficilissima. Che forma sarebbe giusta per il futuro?
Quando incontro queste tematiche, penso ad un testo di Harold Innis, Imperi e comunicazione, in cui l’autore fa un’analisi eccezionale di come sono cambiate le società a seconda del materiale e del “peso” dei mezzi di comunicazione, intesi proprio come il passaggio dalla scrittura sulla pietra alla carta e così via, fino all’impalpabilità dell’elettronico e del digitale. Mi ha sempre affascinato questa visione. Soprattutto mi ha colpito che Innis è scomparso nel 1952. Ecco, a lui si poteva fare questa domanda!
La musica, in parte, sarà ancora prodotta da umani con strumenti musicali, ma di sicuro sarà divulgata a seconda dell’evolversi dei sistemi di comunicazione. Per me è una cosa interessantissima. Non possiamo fermarci ai tempi del vinile, che è sì bellissimo, commovente, ma è anche parte di un tempo in cui c’era solo quella possibilità: non c’era scelta, era il ritrovato tecnologico del momento.
La pandemia ha trasposto il live dentro incontri digitali. Il suono è divenuto digitale anche in questo senso… ormai si suona anche per interposto cellulare. Si tornerà al contatto fisico o ci stiamo abituando alle nuove normalità?
Io mi sto preparando ad incontrare persone dal vivo, progettando dei concerti di presentazione del disco. Il contatto umano è tutta un’altra cosa, rispetto al digitale.
Il “problema” del digitale è che ci abitua al “facile e veloce”. Quindi crediamo di poter vivere in modalità tutto e subito anche nella vita fisica.
Ormai siamo anche cittadini digitali. E va bene. Ma dobbiamo cogliere questa occasione per evolverci: bisogna imparare a viaggiare a velocità diverse, costantemente.
In questo momento è come se tutti avessimo una moto da corsa e una bicicletta a disposizione. Dobbiamo essere in grado di padroneggiare tutti e due i mezzi, conoscendone le potenzialità e seguendone le regole.
Forse la “nuova normalità” potrebbe risiedere nell’equilibrio tra le diverse realtà simultanee che ci troviamo a vivere.
Scendiamo dentro le trame di questo disco dove impera soltanto il suono di una chitarra classica. Un lavoro difficile, impegnativo, immersivo e sicuramente lontano dalle soluzioni automatiche del pop moderno. Dunque ti chiedo: come si inserisce dentro una scena ampiamente devota alla musica leggera digitale, immediata e quasi sempre densa di contenuti superficiali?
Di sicuro il mio non è un lavoro superficiale. Però si presenta leggero. Nel 2003 uscì un bellissimo album di Niccolò Fabi, “è non è”.
Ecco, ritengo che il mio “sia e non sia” un disco di chitarra classica. Credo che si possa inserire dentro ad un’idea di “nuova musica classica” (dove “classica” viene usato in modo molto ampio, quello che intendono “tutti”), ossia quella musica figlia del nostro tempo. Prende da radici tradizionali, accademiche, se vogliamo, ma parla al pubblico del rock e, se non tutto, almeno ad un certo tipo di pop moderno.
Verso questa direzione, rispetto a me, ci sono precedenti illustri, che poi sono i destinatari delle mie 10 lettere: Ludovico Einaudi, Yann Tiersen, Maurizio Colonna, Andrew York e molti altri.
Insomma esiste già una strada tracciata in questo senso ed è quella che collega molti mondi musicali.
E poi tutti finiamo su Spotify. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Ma non è gratuita: qualcuno “ci mangia”. Sono nuove forme di veicolazione della musica, come dicevamo poco fa.
Io per primo faccio fatica a comprendere i meccanismi di queste piattaforme, ma è il presente. Va accettato e capito (cioè va studiato).
D’altra parte (e non facciamo finta che…) in tempi ormai antidiluviani, si registravano le cassette, poi si “masterizzavano” i CD, poi si copiavano gli mp3…
Evidentemente Spotify & Co. sono un modo per divulgare musica che risponde all’attuale società. Di certo produrre un disco e promuoverlo richiede un investimento di denaro importante e si muovono delle persone, figure professionali, per il lancio del prodotto. Poi “come va a finire” forse oggi ha delle incognite in più rispetto al passato.
Ma la mia competenza si ferma qui e non posso aggiungere altro. Osservo incuriosito e spero di imparare.
Dunque apparenza o esistenza? Cos’è prioritario oggi? La musica come elemento di marketing pubblicitario o come espressione artistica di un individuo?
Parlo per me. Il mio disco è nato da un’esigenza. Ne avevo bisogno.
Penso alle parole di Battiato in Personalità empirica: “Quando non coincide più l’immagine che hai di te con quello che realmente sei […] ti viene voglia di cercare spazi sconosciuti per allenare la tua mente a nuovi stati di coscienza”
Ecco, ho cercato una via che mi permettesse di proporre una musica che mi rappresenti; un suono personale.
Per il resto, il mondo va avanti con la pubblicità e il marketing Va bene. Le cose possono coesistere. Anzi, se la mia musica fosse utilizzata per il mercato, ben venga, non avrei nessun problema, ma sarà comunque un impiego secondario.
Questo lavoro è un prodotto artistico.
A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Andrea Cavina, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Forse avrebbe senso chiudere, mandando un brano rappresentativo del mio disco, magari “Estate”, ma vedo bene brani come “Every breath you take” dei Police, “Voglio vederti danzare” di Battiato, “Walk on the Wild Side” di Lou Reed, “Summer” di Joe Hisaishi, “Pop Studi n.20” o “Rock Moment n.2” di Maurizio Colonna. A scelta (o a rotazione).
Che dite? Meglio i classici? E questi cosa sarebbero?
Grazie mille per l’intervista!