A cura di Davide Iannace
Storie di donne che sono fiabe di umanità
Quando parliamo di donne e videogiochi, i topic toccati possono essere tanti: dalle discussioni sull’uso improprio della figura femminile in videogiochi come GTAV, a quelle sul ruolo delle videogiocatrici in un ecosistema sociale spesso considerato puramente maschile. E ancora, quelle sui i tropi attivi all’interno del panorama videoludico e innestati all’interno delle storie, mutuati dal mondo delle fiabe e dei racconti. Potremmo anche spostarci sul lato della creazione, parlando del ruolo delle donne all’interno della produzione dei videogame.
Una delle tendenze più positive di questa industria è la diversificazione che sta subendo negli ultimi anni. Sotto l’influsso di una cultura anche nel mondo dell’arte più pop – che fa della diversificazione e dell’accettazione della diversità punti salienti della sua produzione – anche il mondo dei videogiochi sta vedendo la medesima tendenza. Sicuramente, si può discutere di quanto sia un semplice face-washing da parte delle aziende per accaparrarsi una torta di pubblico in espansione e quanto sia realmente frutto di una riflessione sui rapporti di potere in seno alla società e alle culture produttrici di questi nuovi manufatti videoludici. Si potrebbe dibattere a lungo se le streamer professioniste rappresentino o meno una svolta femminista all’interno di questo spazio mediatico o se siano piuttosto la ripetizione di vecchi tropi e sistemi maschilisti ancorati tutt’oggi all’idea che una donna è presente nel mondo dei videogiochi solo per la sua bellezza fisica e non per qualità altre.
Sono temi che stanno trovando il giusto eco anche in ambito accademico, fortunatamente. Noi ci limiteremo a parlare, nel nostro piccolo, di alcuni prodotti videoludici, al cui interno possiamo notare delle nuove direzioni che stanno nascendo in seno al panorama produttore e che stanno portando una sempre maggiore diversificazione delle voci e dei punti di vista. Non avrebbe senso nemmeno una rubrica come questa se non esistesse proprio questa diversificazione, che di fatto è il vero motore artistico che ci può spingere a ragionare su questo o quel gioco, su questo o quel punto di vista.
Maggiore è la diversificazione, maggiore è la produzione di nuovi manufatti, che nel nostro caso sono sempre giochi, portatori tanto di alterità che di novità. Due sono i giochi che oggi prendiamo in analisi, perché strettamente connessi alla tematica di genere, che in un mese come quello di marzo diviene ancora più rilevante. Parliamo in questo caso di Gris e di Child Of Light, due avventure che hanno come protagonista una donna: senza età nel primo caso, una bambina nel secondo.
I giochi hanno tematiche che ho trovato tanto affini quanto diverse. Gris parla del lutto e della morte, di come superarli e lo fa attraverso un elegante puzzle che ci porta attraverso i decadenti paesaggi di quella che è la metafora della nascita e della crescita, del corpo della donna che è tempio, lotta, costruzione e distruzione. Lo fa attraverso le figure di Gris e della madre, della loro relazione che diventa specchio dell’evoluzione della persona. Il gioco è una lunga accettazione di un dolore – la perdita di una madre, quella di Gris in particolare – e la ricerca della propria voce che si esprime come canto man mano che il gioco avanza, per accettarlo e farlo proprio.
E sempre le relazioni genitoriali sono un po’ il fulcro di Child of Light, in cui si prende la forma di una piccola principessa che viene calata improvvisamente in un mondo fatato. Oltre alla tecnica assolutamente originale del gioco, che miscela sapientemente acquerelli e grafica 3D, ciò che colpisce è la trama che vede al centro la ricerca del sé, narrata come fiaba di una principessa alla ricerca del padre-duca. Personaggi secondari ed antagonisti, intervallati da inframezzi scritti a mo’ di filastrocca, condiscono la storia di Aurora, questo il nome della principessa, rendendo il tutto una fiaba interattiva. C’è poco a livello di scelte, come in Gris. Non stiamo parlando di RPG nella loro forma più pura – anche se in Child of Light il giocatore potrà scegliere come potenziare i suoi personaggi e come cercare i vari segreti, piccole perle che spiegano i retroscena del mondo di Aurora, della realtà che la circonda e di Lemuria – il mondo fatato dove si va a ritrovare.
La cosa che innanzitutto colpisce è che entrambi questi giochi sono classificabili come indie. Gris è spagnolo, un mercato videoludico solo recentemente in crescita che sta scoprendo – come anche l’Italia – le potenzialità del manufatto-videogioco e le sue possibilità come strumento narrativo. Child of Light è stato prodotto da Ubisoft, ma all’interno di un contesto di produzione che ha dato vita anche ad altri giochi come Valiant Hearts, di cui parleremo in un’altra sede, che ha permesso ad una casa di produzione pop come Ubisoft di dare vita a videogiochi che fossero meno mainstream e più sperimentali, artistici, innovativi nel loro piccolo.
L’essere prodotti di nicchia e al contempo offrire un nuovo punto di vista femminile concedono a questi due videogame di muoversi in maniera più ampia, diversa, nuova. Lo fanno narrando storie che potremmo giudicare in parte classiche, muovendosi con una direzione artistica che mette al primo posto il messaggio e la narrazione: la ricerca di una direzione dopo la morte e la ricerca di risposte al perché della morte. Queste ultime non sono che a malapena suggerite dagli sviluppatori – come in ogni opera che si rispetti. Sussurrate e suggerite, a modo loro, come delle briciole da cogliere lungo la strada.
Queste storie danno un piacere diverso. Come videogiochi, né Gris né Child of Light sono accattivanti dal lato del gameplay, non si gioca per molte ore e non catturano per geniali intuizioni, ma lo fanno attirando gli occhi, le orecchie e soprattutto la mente. Spingono a leggerli e rileggerli come storie dense di strati e metafore che diventano in qualche modo una meta-narrazione.
Non c’è la fiaba di Aurora che deve salvare Lemuria, né di Gris che cerca di comprendere il lutto. C’è il nostro rapporto con l’identità, con l’appartenenza; c’è l’intima relazione con il lutto e con il rapporto con lo scomparso, con ciò che manca e che solo la luce riesce a riportare come costruzione solida.C’è l’idea, sempre in Gris, di ciò che ci consuma alla fine solo se siamo noi stessi a cedere a questo consumo. È una metafora certamente del dolore e del peso che trascina con sé. È anche specchio della società e delle sue storture, dei pesi che si accavallano sulle spalle spesso fragili degli esseri umani e la cui continua fuga finisce per diventare a sua volta un nuovo peso.
Child of Light è una profonda riflessione sul ruolo dell’identità e dell’appartenenza: con chi ci identifichiamo, con la principessa del ducato reale, forse Lemuria? Il dilemma attanaglierà Aurora per tutto il gioco. Vive del confine tra la luce e l’ombra, del loro ruolo nel dare forma ad un mondo imperfetto ma che è pur sempre mondo.
E forse la verità è che queste storie non avrebbero funzionato con un diverso approccio, per esempio un approccio da figlio a padre o con un principe come protagonista. Sia perché il tropo classico avrebbe influenzato il videogiocatore con un bias di partenza, sia perché nell’inversione dello stereotipico, della principessa con la spada che combatte per sé e il suo regno, per il padre e per il ducato, vi è l’inverso di quello a cui siamo abituati. In Child of Light non abbiamo nessuna principessa da salvare, né relazione amorosa alle spalle. Vi è una principessa che ha un chiaro scopo in mente e che combatte per questo.
In Gris, non vi è un lutto amoroso, non vi è il classico contesto in cui un personaggio femminile viene posto all’interno di una relazione in cui vi è un uomo, ragazzo o quel che è, con cui interagire per comprendere a fondo le sfaccettature e l’evoluzione della storia. Tutto è contenuto in queste relazioni puramente femminili ma in cui è impossibile non rivedersi. Raccontate attraverso un piglio improvvisamente originale, perché basate sulla più semplice ma immediata delle rivoluzioni: quello di un punto di vista semplicemente nuovo sulla storia. In questo caso, tanto Gris che Child of Light, offrono degli spunti su come narrare storie anche non originalissime ma che lo diventano nella loro evoluzione. Offrono anche degli spunti su come l’industria videoludica può iniziare a cambiare il suo modo di approcciare queste storie, inserendo la diversità come motore promotore di cambiamento e di innovazione e non mero face-washing per accontentare un pubblico che sembra attento alle dinamiche sociali.
È pura ricerca artistica. Giochi come Gris e Child of Light non saranno ricordati come i videogiochi che hanno venduto di più nella storia, né vi aspirano. Non saranno i prossimi Call of Duty, in termini di impatto di mercato, però offrono – come sempre più giochi – lo sguardo altro all’interno di un mondo che è iniziato come pura spinta innovativa ai vecchi medium, quello dei videogiochi.
La grande fortuna, per tutti i videogiocatori, è che non sono casi isolati. Come ogni industria che si rispetti, anche quella produttrice dei videogiochi ha iniziato e continuato un suo percorso d’evoluzione, in cui a sistemi pop e mainstream sostituisce lentamente prodotti in cui è presente l’alterità, nelle storie e nei personaggi. Spesso forse non nei prodotti più di massa, quelli da divertimento più spicciolo e rapido, ma certamente in piccole perle indie, che abbiamo visto, nascosti agli occhi, rappresentano le migliori forme che il videogioco può essere.
E perdonateci se quindi continueremo a parlare sempre di queste piccole perle, che sono capaci di regalare passione, rabbia, gioia come ce lo potrebbero regalare emozionanti romanzi e film. Giochi che sono capaci di far vivere delle storie, di renderle quasi tangibili, sensibili. Di farlo con eleganza e classe, con un punto di vista originale, diverso e che quindi meriterà sempre tutta la nostra attenzione.