La cosmopolìta Londra sbarca in Italia
Continua a sorprendere Palazzo Cipolla che, sotto la guida della Fondazione Terzo Pilastro, porta London Calling a Roma. Insieme a Poema, Arthemisia e ComediaArting, la fondazione ha proseguito l’opera internazionale che aveva visto Quayola esporre il suo repertorio proprio in queste sale poco tempo fa, ne abbiamo parlato qui.
L’italiano, corso all’estero e poi tornato, fa da apripista alla scuola di Londra, a questa informale ma non troppo Young British Artists, ai suoi autori e autrici che si succedono per le sale nel cuore della capitale, l’affaccio inglese su Via del Corso che dal 17 marzo al 17 luglio, permetterà a turisti e romani di godersi le opere di alcuni dei più affermati autori contemporanei londinesi. Una scuola, a modo suo, che possiamo definire come il bacino in cui han trovato forza ed esperienza questi artisti e che diventa modello, prototipo, per coloro che vengono dopo.
Li definiamo londinesi, nonostante non lo siano tutti di nascita. Londra è il fil rouge che collega penna, scalpello e pennello dei tredici artisti che con le loro opere rappresentano i più diversi punti di vista su arte, politica, cultura. Si succedono rapidamente uno dopo l’altro, offrendo un caleidoscopio di differenze espresse da questi londinesi internazionali o internazionali londinesi.
Parlare di tutti è un esercizio complicato, che richiederebbe non un articolo, ma un saggio. Una delle cose che più mi ha colpito sono le prime tre esposizioni, ovvero Anish Kapoor, Tony Cragge Mat Collishaw.
Parliamo di scultura. In Cragg e Kapoor non c’è il tentativo di unire passato e presente, ma piuttosto di smontare le forme della fisica e della natura mettendoci mano e scalpello. Così, le sculture di Kapoor sono più di quello che la loro forma manifesta.
Diventano specchi, solidi cubi dalle forme non geometriche che tanto care sarebbero state allo scrittore americano Lovecraft. Nell’opera Magenta Apple Mix 2, la forma viene asservita allo scopo di essere vista dal visitatore, ma anche riflettere il suo stesso sguardo, rigirarlo, renderlo uno shaker di punti di vista nuovi e improvvisi. Due semplici apparenti metà di mele nascondono al loro interno non un seme ma l’immagine stessa di colui che guarda e che aspira, in quel momento, a diventare interazione con l’opera stessa. Untitled e Non-Object (Triangle Twist) sembrano solo in apparenza opere più semplici.
Ma proprio la seconda rompe con lo schema classico del monolite, facendo girare sul suo asse verticale la forma di solido metallo, che viene plasmata per diventare improvvisamente malleabile, liquido. Come nell’opera Magenta, anche qui la superfice riflette e distorce. Kapoor rompe lo schema tra osservato e osservatore, non solo con l’uso del riflesso, ma con la sua distorsione e la rottura della linea retta che unisce chi guarda con ciò che viene visto, si gira e rigira.
Rompere con l’aspettato è il concetto che attraversa tutta London Calling. Anche in Tony Cragg troviamo la rottura delle strutture con forme della natura che vengono riproposte dalla mano umana. È difficile riconoscere la differenza tra ciò che la natura ci offre già come naturale spettacolo e ciò che la mente umana reinterpreta come raffigurazione. In Contradiction, Ivy e Skull, ci troviamo ad affrontare le forme geometricamente non-geometriche, quelle che la mente umana interpreta come le forme della natura. C’è tanta geometria nella natura, eppure spesso sono le forme più slegate, quelle che non ricordano strutture intere, strutture precise e perfette, a farci pensare alla natura come ordine caotico. Cragg sembra reinterpretare tale relazione. Riporta invece una perfezione in apparente imperfezione. Ci si perde tra i legni di Ivy e tra l’altezza di Contradiction, questa costruzione dura, che però sembra ricordare il movimento di uno stelo di grano o di erba.
C’è questo continuo relazionarsi tra le forme della natura e della realtà umana, dell’edificio e dell’albero, entrambe strutture che si creano, generano, nelle mani tanto di Cragg che di Kapoor. Totalmente differente da ciò che invece fa Collishaw con il suo Seria Ludo, un lampadario animato da statue che, con funzionamento meccanico, prendono e si muovono in questo caleidoscopico movimento sensuale, attivo, erotico, allegro. È come guardare nella gabbia un bordello che è un lucernario, che l’autore crea e mette in mostra per noi. Un gioco, come suggerisce il nome dell’opera. Un gioco in cui, però, il visitatore non è invitato. È il gioco che possiamo osservare, ma non toccare. Cui sappiamo l’esistenza, ma cui non possiamo allo stesso modo unirci.
Il candelabro, con le sue luci e le sue figure, diventa come un orologio astronomico particolarmente complesso, affascinante. Segna il tempo delle feste e dei divertimenti che diventano sfrenati, appaiono e poi, incredibilmente spariscono. Un memento mori della vitalità, dell’esistere, che si ripercuote sulla festa. Appare e poi sparisce, solo qualcosa sulla strada? Forse Collishaw non fa altro che giocare con i nostri sensi e le nostre sensazioni, lasciandoci la vaga sensazione di aver visto una meccanica performance, sempre identica nel suo ripetersi, eppure performance comunque.
Ci sono altri mostri sacri ospitati a Palazzo Cipolla. Damien Hirst fa da padrone della sala a lui dedicata, che ruota intorno il suo Glen Matlock, l’armadietto delle medicine intorno cui penne più fini hanno parlato a lungo, e intorno il Beautiful totally out of this world painting, che, come suggerisce il nome, colpisce per la sua bellezza, per la sua capacità di catturare lo sguardo con gli infiniti dettagli – come una carta di credito, che si mormora sia lì come j’accuse dell’artista alla moglie per le troppe spese, una storia, chissà se vera. Un’opera che, come il divo della mostra, conquista per il suo interfacciarsi con il Glen Matlock e con il Gadolinium, riconoscibile a qualsiasi occhio.
È al lato opposto dello spettro generazione che si sono soffermati i miei occhi, sul giovane Idris Khan, un altro figlio di generazioni, destini e culture che si incrociano ed esplodono in una unica mente, in un unico corpo artistico. Si presenta con Burnt wood e Once more to this star, la seconda opera rappresentativa del periodo pandemico e della quarantena. Un mix di vetro e di parole impresse, parole che per il giovane artista londinese rappresentavano i sentimenti comuni a tutti coloro che si sono andati ritrovando nel mondo nuovo dell’isolamento, della divisione, delle quarantene. Sono opere così semplici nella loro forma apparente, che lasciano quasi di stucco nel momento in cui il loro significato si va smontando. Il blu, il colore per eccellenza di cielo e mare, di libertà, diventa il colore del confine, del tangibile divisorio tra il sé e l’altro. Nella produzione di Khan c’è tanto il passato – i riferimenti all’arte e al suo posizionamento nello schema della storia della pittura – ma anche il contemporaneo.
Lo stesso contemporaneo che si affaccia nelle opere di Jake e Dinos Chapman – le cui opere che mettono al centro la spettacolarizzazione della violenza oggi hanno un duplice valore – di Yinka Shonibare, Annie Morris, Grayson Perry, David Hockney, Michael Craig-Martin, Sean Scully, Julian Opie. Generazioni di londinesi, di veri abitanti della metropoli internazionale che è la capitale britannica, separati forse da differenze di storie personali, di percorsi artistici, di mondo accademico, di politica, ma accumunati da questo cosmopolitismo che traspare in ogni singolo dettaglio, in ogni creolizzazione, in ogni sfumatura delle opere che sono state portate a Londra.
Per capire meglio tale percorso, più che le parole del visitatore, sono meglio le parole dei due curatori, Javier Molins e Maya Binkin, che hanno condiviso i loro pensieri all’inaugurazione:
Come avete immaginato il percorso di questa mostra? Le connessioni tra gli artisti, come li avete messi insieme?
Javier Molins [J.]: Abbiamo considerato tre generazioni di artisti più o meno in questa mostra. Micheal Craig-Martin, Damien Hirst, Mat Collishaw o anche David Hockney sono in qualche modo quelli più adulti e maturi. Molti di loro si sono incrociati a Londra, come insegnanti o studenti. Qui, però, non è scoppiata quella grande competitività negativa che spesso può esplodere. Sono stati invece esposti negli stessi musei, nelle stesse gallerie, come colleghi. Alcuni di loro sono nella Royal Academy e, a loro volta, propongono proprio nuovi artisti – nuovi giovani artisti – come possibili membri dell’accademia stessa. È un aspetto molto anglosassone della loro mentalità. È qualcosa di molto tipico. Io sono spagnolo-messicano e c’è una storia che spiega bene questa differenza di attitudine. In un ristorante ci sono due secchi, uno pieno di granchi messicani e l’altro di granchi anglosassoni. Il secchio anglosassone ha il coperchio, quello messicano no. Perché uno è coperto e l’altro no? Perché i granchi anglosassoni si aiutano per uscire dal secchio, i messicani rimangono li. È una cultura, quella anglosassone, in cui alla fine l’artista aiuta l’altro.
Maya Binkin [M.]: Anche gli artisti più ribelli, quelli che vengono da percorsi diversi, come Grayson Perry, in qualche modo eventualmente diventano parte del gruppo stesso. Iniziano come artisti anti-YBA, ma ora ne è parte, integrato, inserito al suo interno.
J: Quando si andava allestendo la mostra, e facevamo delle foto alle opere di Cragg da mettere sui social e un altro artista anche esposto qui ha iniziato a commentare complimentandosi per la loro bellezza. È un tipo di supporto, anche informale, che però mette bene in luce questa attitudine.
C’è una profonda collaborazione tra gli artisti di questa scuola.
J: Cragg ha una fondazione dedicata, e tra i presenti molti hanno esposto proprio lì, come Scully e Collishaw, l’autore di Seria Ludo.
M: Molti artisti che hanno, magari, un certo senso di competizione e concorrenza tra di loro, è un modo in qualche modo di spingersi verso nuove vette, nuove eccellenze. Questa concorrenza è in qualche modo positiva, è propositiva. Sono consapevoli anche essi che esiste, ma gli permette di mantenere uno standard più elevato, piuttosto che buttarsi giù.
Tra gli artisti c’è Khan, il più giovane, che in qualche modo rappresenta una grande commistione tra diverse culture, ma non è l’unico che porta avanti con sé questa creolizzazione.
M: Infatti troviamo anche Kapoor, padre ebreo e madre indiana. Yinka, anche, lavora proprio prendendo piede dalle sue origini e mettendo al centro delle sue opere la questione della multiculturalità e la storia colonialista europea. Ancora, abbiamo anche Sean Scully che è irlandese, forse non tanto lontano dall’Europa, ma che porta con sé un occhio ancora critico al classico britannico.
Capire il percorso degli artisti anche attraverso gli occhi dei curatori permette di comprendere la bellezza intrinseca di una tale mostra. Se in certi casi, focalizzarsi su un solo artista permette di comprenderne le piccole sfaccettature che ogni pennellata o scalpellata può avere, London Calling ha il pregio di portare al centro una mentalità e un approccio, quello londinese, quello cosmopolita, all’arte. Di prenderlo e portarlo a Roma, una città che di arte vive e respira e che, forse, proprio nell’internazionale potrà andare trovando punti di vista nuovi e innovativi su concetti pensati come inamovibili, statici, perfetti nel loro essere tali e quali al passato.
La mostra di Palazzo Cipolla insegna, invece, mettendo in luce come il contemporaneo si fonda col passato, ma apra strade nuove e innovative, grazie alle opere di tre generazioni di artisti che si confrontano, sfidano, supportano, lastricano la strada dell’arte e della bellezza per sentieri nuovi e mai prima mossi.
DOVE: Palazzo Cipolla, Via del Corso 320, Roma
BIGLIETTO: Intero 6€, possibilità di riduzione (consultare il sito per maggiori informazioni)
ORARI: dal martedì alla domenica 10-20
LINK: https://www.fondazioneterzopilastrointernazionale.it/2022/03/10/london-calling-british-contemporary-art-now/