Il fascino mai perso delle polaroid
Manuele Geromini in mostra fino al 28/04 @Radio Trastevere Gallery
La fotografia è un’arte che può prendere forme molto diverse: digitale, pellicola o polaroid. Come nel caso della seconda esposizione di Radio Trastevere Gallery, nel cuore del quartiere romano tra i più affascinanti della capitale. La serie Fuori Catalogo offre spazio a Manuele Geromini.
Il fotografo mette in mostra delle polaroid, una delle forme più divertenti di fotografia associata all’idea di rapidità, a sua volta associata all’idea di leggerezza dei viaggi e del movimento. Il click, il minuto di negativizzazione della foto, la soddisfazione – o l’odio forse – per il risultato finale.
La personale di Geromini mette in mostra qualcosa di diverso, la sperimentazione attraverso una forma classica, quasi prestabilita, di fare fotografia. Di che parliamo esattamente? Di sovra-impressione soprattutto, del prendere forme apparentemente statiche e portarle nel movimento del quasi-video. Così, le immagini di vasi e di corpi diventano piccole, brevi storie di emozioni e d’azioni, di movimentate vicissitudini e di immaginazione nella sua forma più pura: il corpo nudo da dove viene? Qual è la storia di questo o quel vaso? Abbiamo la sensazione di guardare dei video che, invece, sono semplici polaroid.
Di semplice, queste polaroid, hanno ancora meno nel momento in cui vengono modificate, amplificate, allargate. Allora, diventano quasi dei quadri rinascimentali. Diventano enormi, queste forme che nella realtà sono negativi, trasformati dalle mani dell’artista in qualcosa di nuovo, come dei quadri, a malapena rovinati dal tocco di trasformazione dei file tendenzialmente piccoli, per poi renderli qualcosa di enorme, di grande.
Ne abbiamo parlato direttamente con il fotografo, l’unico forse capace di spiegarci cosa si nascondesse tra i negativi e le filigrane:
Ciao Manuele e grazie del tempo che ci dedichi. Iniziamo da una domanda semplice: perché le polaroid?
La polaroid è una delle tante forme di fotografia possibili. Sono tante le cose che raccogliamo sotto questo termine, tutte le forme di fotografia sono diverse, quanto simili. Personalmente, sono pigro. Quando faccio un lavoro, finisce quando è scattato. Con le polaroid si realizza proprio questo. Le polaroid sono poi oggetti, sono qualcosa di particolare, anche nel modo di lavorare: scatti molto meno, ma hai qualcosa di tangibile.
Si, fotografi e direttamente ti arriva questo oggetto cartaceo.
Io, infatti, soprattutto faccio la messa in scena. Decido la luce, le ombre, i colori dominanti, faccio la foto della scena, ma solo una o due foto. È un modo di lavorare diverso. È un modo non solo di riprodurre la messa in scena – perché quello puoi farlo con ogni genere di fotografia. Mi piacciono inoltre le foto piccole – come proprio le polaroid esposte – ma anche ingrandire queste foto piccole. Nel momento in cui le allarghi, tutto cambia, si rompe un po’ la materia quando si ingrandisce.
Di solito con le polaroid automatiche poi controlli molto poco della tecnica. Qui, invece, di automatico c’è anche pochissimo. Ti permette di modificare e di giocare con quello che vuoi fotografare.
Mi è parso di capire che nelle differenti polaroid vi sono sovrapposizioni, come se fossero due foto insieme.
Si, è qualcosa che mi è sempre piaciuto fare, di mettere di solito più immagini, quasi sempre due. Un po’ un gioco ecco. Viviamo nel periodo storico dello snapshot ad oggi, e non se ne riesce a uscire. Per me, però, l’istante è da vivere. Non riesci a catturarlo, puoi viverlo, se lo catturassi davvero sarebbe, come direbbe Cartier-Bresson, un vero miracolo. È impossibile catturare davvero l’attimo, ma puoi provocarlo.
La prima immagine è quello che io vedo, che conosco, di una persona – il suo passato. Ti vedo, mi piaci, ti fotografo. Sulla stessa immagine scatto una seconda volta, ma chiedo al soggetto di muoversi. È qualcosa di casuale, un istante, qualcosa che non ho mai preso, che non riuscirò mai a prendere, qualcosa di nuovo.
Mentre cosa mi puoi dire dei negativi delle polaroid?
Le polaroid che uso sono delle macchinette Fuji, che un tempo si utilizzavano per fare i test delle pellicole. Essendo rimaste le ultime, sono rimaste anche pochissime cartucce e pochissimi strumenti per usarli. Ecco, ho scoperto che con la candeggina si può pulire la parte negativa dietro di queste Fuji, che non è stampabile ma scannerizzabile. Da un lato, c’è quel qualcosa di fatto, la foto in sé per sé. Poi, ci sono i negativi, ci semi-lavori, escono fuori come estratti, in qualche modo mi sorprendono perché c’è qualcosa di nuovo nel lavoro sul negativo. C’è un forte effetto di casualità.
È molto interessante. La polaroid si immagina molto come uno strumento molto statico invece di solito.
Quando scatti con la polaroid c’è sempre un minuto in cui si deve sviluppare. Ecco, in quel momento, tu puoi lavorarci. Puoi aprirla, dare una doppia esposizione al negativo. È un continuo sperimentare, ci giochi, vedi cosa succede. Io prego sempre ogni volta che ci lavoro su, perché fino a che non è finito non sai come andrà. C’è un momento in cui agire, ed uno in cui sperare solo che vada bene. È tipico della fotografia, perché a differenza della pittura non puoi sistemare davvero qualcosa di fatto dopo.
Ultima domanda, per il futuro, dopo questa mostra che progetti?
Noi, e intendo noi perché siamo un gruppo che lavoriamo, stiamo portando questa mostra che è un po’ qualcosa a cui aggiungiamo qualcosa ogni volta. Abbiamo molto materiale per le prossime mostre, ma dobbiamo decidere ancora cosa mettere in campo. Questa volta, ad istinto, siamo partiti da queste polaroid, ma con calma vedremo cosa aggiungere.
Dopo l’intervista, girando per il piccolo loft che ospita la mostra, mi appaiono in qualche modo più chiare le logiche dell’artista. Nelle forme dei corpi si notano quei movimenti suggeriti, storie raccontate con due soli momenti: il prima e il dopo, il passato e il futuro. Così, la polaroid trova un suo spazio, una sua forma, una sua nuova messa in scena. Se, nelle arti performative e audio-visuali, molti sono andati ricercando nel video, nel suono, nella commistione di elementi, la novità, una sperimentazione artistica in senso alla pellicola cartacea appare straordinariamente fresca.
È una sperimentazione che trova una cornice ottima a Radio Trastevere Gallery, che trova una sua libertà nei quadri apparentemente vecchi, nelle corde dello shibari giapponese rappresentato. Un gioco al confine tra diverse realtà, tra l’antico e il nuovo, che genera però una sua realtà a sé, un suo nuovo spazio, una sua nuova realizzazione. In qualche modo, un suo nuovo attimo. Una visita è assolutamente consigliata agli appassionati.