Intervista di Gianluca Cleri
Liturgico, soave, di morbidissima quiete… ma anche ricercato e pregno di suggestioni. Il nuovo disco di Riccardo Morandini si intitola “Il leone verde”. Spiritualità e filosofia del vivere, lotta contro l’ego e accettazione (o emancipazione di se). Un suono spesso orchestrale, spesso sintetico e minimale nei suoi ingredienti, con la voce che pennella e guida un volo a planare. Un disco firmato dalla collaborazione con Franco Naddei e il suono analogico de L’Amor Mio Non Muore. Davvero un’opera contemplativa che stimola il pensiero e la ragione… l’arte della parola diviene anch’essa musica e suono.
Dopo “Eden” torni con un lavoro che in qualche modo da quello riparte. Parli sempre dell’uomo e dei suoi vizi, delle sue limitazioni, del suo “non essere”… o almeno di come dovrebbe “essere”… che ne dici?
In realtà parlo soprattutto di me stesso, più che essere un castigatore della morale collettiva. Condivido i conflitti (e le loro potenziali soluzioni) che vivo quotidianamente, cercando di dar loro una veste il più universale possibile, in modo che l’ascoltatore che vive situazioni analoghe possa identificarsi nei brani senza sentire troppo il peso dell’”io” narrante. Per sintetizzare le tematiche che tratto cito Battiato, e Gurdjieff con lui: “si sente il bisogno di una propria evoluzione, sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità”. Nei miei testi descrivo questa ricerca perenne.
Quando riascolti queste canzoni, cosa riscriveresti nel tempo assurdo che stiamo vivendo? Quanto invece pensi che resterà immutato negli anni a venire?
In “Eden” soprattutto c’era questo filo conduttore dell’assunzione di responsabilità, che curiosamente coincideva per me sul piano individuale con la fine dei vent’anni e su scala mondiale con il virus, che ha messo in evidenza alcune tendenze folli del mondo contemporaneo. Rispondo anche alla domanda seguente, dicendoti che personalmente ho la sensazione che nulla sia cambiato da prima del covid e che appena possibile ci siamo rigettati nel vortice capitalistico di produzione-consumo e nell’individualismo imperante, forse esacerbato dalla pervasività dei social durante la pandemia, che hanno acuito le tendenze egocentriche e narcisistiche già presenti nella società.
La tua canzone, le tue liriche soprattutto, cerca il palato fine di un pensatore che indaga fin dentro la radice. Un’arte e un tempo dilatato che ci impone di attaccarci a stilemi per non perdere identificazione. Come pensi che riesca a dialogare con un popolo totalmente privo di senso critico (per essere estremi nella descrizione sociale di oggi)?
Chi è in cerca di ascolti più leggeri e ironici non sarà semplicemente attratto da questo disco, e lo accetto, perché non ha la pretesa di essere un disco pop con un ampio bacino d’utenza. Come dici tu sarà più facile che venga apprezzato da chi è attratto da contenuti “filosofici” e difficilmente dialogherà con chi non ha questo tipo di interessi.
Un disco che suona analogico… come mai questa scelta artistica?
La scelta di registrare all’Amor mio non muore nasce innanzitutto dall’amicizia di lunga data con i soci fondatori e dall’ottimo clima umano che si respira. Per quanto riguarda la strumentazione, un fiore all’occhiello è il vasto compartimento tastiere, che offre una miriade di possibilità timbriche. Sia per quanto riguarda le tastiere che per gli echi, i riverberi, i compressori etc., il fatto di lavorare “girando delle manopole” di macchine analogiche, rende l’approccio alla registrazione più fisico e intuitivo (e piacevole) rispetto all’astrattezza del fare tutto “in the box”.
Parlando di filosofia della registrazione, l’Amor mio nasce (e tuttora può essere utilizzato) con un approccio purista: registri direttamente su nastro, niente editing e ci si tiene le imperfezioni. Questo sia perché i musicisti siano spronati ad arrivare in studio preparati, “come una volta”, sia perché l’eccessivo perfezionismo in fase di editing, oltre ad essere snervante, spesso raffredda il risultato finale: un discorso musicale fatto in un’unica take sarà più coerente e comunicativo rispetto al frutto di un collage di frammenti.
In realtà il mio disco è stato registrato prima in digitale e in un secondo momento passato su nastro per dargli il calore caratteristico dell’analogico e spesso le produzioni più “pop” dell’Amor mio, che prevedono molte sovraincisioni seguono questa modalità ibrida. Tuttavia l’approccio rimane e si cerca sempre di limitare le take e di privilegiare l’unitarietà rispetto al perfezionismo e all’eccesso di pulizia. Se vogliamo aggiungere un velo di misticismo a tutto ciò, mentre nel digitale si ha a che fare con riduzioni numeriche del suono che per quanto infinitesimali saranno sempre discrete, quando giri una manopola su un macchinario analogico fai un movimento continuo: tra una posizione e l’altra c’è l’infinito.
E Franco Naddei in tutto questo come cade, come lo incontri e soprattutto perché lo scegli a guida dell’arte del disco?
Franco è un vero maestro della ricerca timbrica e avevo bisogno di una figura che curasse la materia sonora, laddove io mi sono occupato della parte astratta dei brani (la musica come spartito per intenderci). Vedendola da un punto di vista junghiano è stata una collaborazione tra le funzioni di sensazione e intuizione. L’altro pregio di Franco è che non perde mai di vista anche gli aspetti “immateriali” (compresi quelli testuali) della forma canzone. E’ un’artista a tutto tondo, non un semplice fonico.
Non troviamo un video ufficiale, se non erro… e dopo l’arte messa in scena per “Eden” eravamo assai curiosi. A quando?
Devo confrontarmi a fine mese con un videomaker. Penso che entro Settembre ci sarà il videoclip di un singolo!
L’uomo e la tecnica. L’uomo e il suono che per quanto analogico questo disco ne ospita tantissimo digitale. Programmato anche… non pensi che in un lavoro che tanto parla dell’uomo, sia un controsenso ospitare tanto di “non uomo”? Scusa la domanda eccentrica… e forse obesa di filosofia spicciola…
In realtà il mio disco è stato registrato prima in digitale e in un secondo momento passato su nastro per dargli il calore caratteristico dell’analogico e spesso le produzioni più “pop” dell’Amor mio, che prevedono molte sovraincisioni seguono questa modalità ibrida. Tuttavia l’approccio rimane e si cerca sempre di limitare le take e di privilegiare l’unitarietà rispetto al perfezionismo e all’eccesso di pulizia. Se vogliamo aggiungere un velo di misticismo a tutto ciò, mentre nel digitale si ha a che fare con riduzioni numeriche del suono che per quanto infinitesimali saranno sempre discrete, quando giri una manopola su un macchinario analogico fai un movimento continuo: tra una posizione e l’altra c’è l’infinito.