Colorati fantasmi sulla carta
Impronte, di Maria Donata Papadia è l’ultima delle mostre che Radio Trastevere Gallery, in collaborazione con Culturalia, ha realizzato prima della pausa estiva che, non solo l’arte ma anche Roma, si prende col caldo.
Il concept base di Papadia in Impronte è semplice quanto coinvolgente. Sono tracce di corpi su carta sottile, che viene poi colorata per lasciare chiara la traccia che diventa visibile dinanzi agli occhi dei visitatori e dell’artista stessa. C’è una curiosa relazione che si instaura qui nella triade tra visitatore, artista ma anche con l’opera stessa e, per vie indirette, con il modello o modella che si cela dietro, l’invisibile corpo che a tre dimensioni si presenta a noi in due, due sole dimensioni visibili su una carta che si può toccare con mano, sfiorare a malapena, lasciate libere di essere avvicinate dagli stessi visitatori.
Cosa ci raccontano queste opere? Storie, non fisse nel tempo e nello spazio, di corpi e di mani, che vengono narrate come ombre da parte della mano dell’artista. I corpi, rossi e grigi, ora interi, ora divisi a metà, sembrano suggerire solo la presenza precedente di un corpo. Sappiamo, inconsciamente, che quelle forme non sono dipinti ma il frutto di una collaborazione tra l’artista e delle persone, altre, che hanno portato qualcosa di unico all’interno del quadro: la loro presenza.
Il corpo, come molti filosofi e studiosi hanno, nel modo loro unico provato a dimostrare, è interconnesso alla mente, ma non solo, anche al mondo che lo circonda. Questo esce fuori dalle opere messe in mostra nel cuore di Roma. Ogni corpo, invisibile nella sua sostanza, è visibile in quella che è la sua colorata ombra permeata nella carta velina. Abbiamo avuto innanzitutto modo di parlarne con l’artista:
Come nasce “Impronte”?
È un progetto che nasce un po’ di anni fa, dal mio amore per il corpo umano, inteso come che cosa sia questo contenitore, che cambia, che è reale, che non è reale, che posso metterlo in pose diverse per vederlo diversamente ma continua a essere il corpo. Mi è venuta questa curiosità verso il corpo umano, verso questo contenitore. Ho avuto la fortuna di avere tanti amici che per me si sono messi a terra, dandomi la possibilità di disegnare queste linee, simili, ma sempre di corpi diversi.
Hai fatto sia mani che corpi, anche se sembrano diversi a prima vista.
È la stessa tecnica, sia per le mani che per il corpo. Ci sarà tra poco una modella di cui prenderemo la forma del corpo. Di solito, in precedenza preparo la carta velina, faccio un collage di queste carte e l’ultima è una velina. Quest’ultima viene poi tagliata e riportata su carta colorata, quasi per magia. La cosa che mi affascina è che sono sempre le stesse linee. Vi è sempre una parte in alto, poi la forma delle spalle, del torace, simili, ma poi tutte diverse. Ho avuto modo di fare corpi interi, divisi, di risistemarli poi in forme nuove sulla carta.
Come mai la scelta di non incorniciare le opere e lasciarle libere nello spazio?
La cornice mi ha sempre dato un’idea di chiusura. Alcune cose sono belle incorniciate, ma mi dà l’idea di qualcosa che deve essere rinchiuso. Invece, mi piace l’idea della leggerezza, dello spazio libero, di queste oper libere nello spazio e nel tempo. Tutto cambia, anche noi, tra due minuti saremo diversi da prima, niente resta fermo e fisso nel tempo. Anche altri lavori che ho fatto nel passato, erano calchi di corpo umano immersi poi nell’acido che li ha portato poi ad arrugginirsi, sopra cui ho messo carta di riso giapponese che col passare del tempo si è smembrata, come la pelle che si rovina. Mi affascina l’idea del tempo, di cosa sia, di come passi. Domande a cui nemmeno abbiamo risposta.
Tempo e corpo sembrano quindi due delle parole chiave al centro della mostra ospitata brevemente a Radio Trastevere Gallery. Il tempo che in qualche modo esala dalle forme dei corpi, che sembra sparire e riapparire nelle diverse macchie di colore, che a loro volta diventano tracce del suo passaggio. Sono come gli strati delle cortecce degli alberi, che mostrano poco a poco l’età e il passaggio delle ore e degli anni. Le tele, che ironicamente bloccano il corpo nel tempo, diventano poi a loro volta medium del suo finire.
Ancora più interessante vedere la mano dell’artista poi estrarre quelle linee che al visitatore vengono mostrate come finite. Nella performance eseguita dalla modella Bianca Attiani, vi è stata la possibilità di osservare il lavoro di Papadia nel momento del disegno, nel momento in cui, con mano ferma – invidiabile almeno quanto la fermezza della modella nel fare da calce per le linee – ha estratto su carta le forme appena accennate e intricate del corpo. Le tre dimensioni, solide, dell’umano sarcofago esistenziale diventano quelle che, in apparenza, sono solo caotiche linee.
Invece, li viene tracciato il disegno di quello che diviene il tangibile fantasma della persona, che è passata sulla carta e vi ha lasciato questo segno, questa traccia che sarà forse delebile, che col tempo potrà schiarirsi, proprio come le persone riescono a diventare tracce nella memoria delle persone, diventando immagini, forse sogni, forse costrutti artificiali che non somigliano più alla realtà né al momento del passato vissuto, ma rimangono come se fossero nuove forme solide.
Le impronte, come tracce nella sabbia e qui sulla carta, sono un invito alla riflessione proprio sullo scorrere del tempo, non tanto in un macrosistema osservativo come il mondo, ma su quelle piccole dimensioni che sono spesso legate proprio a un corpo, il nostro. Il tempo che spesso ci fa sentire fuori luogo, fuori posto, al momento sbagliato, nella mostra e nelle opere di Maria Donata Papadia si blocca, riprende e scorre, ad un ritmo diverso, forse al ritmo semplicemente giusto.