A cura di Davide Iannace
Perdersi nel tempo e nello spazio
Il vero motore che spinge verso alcuni prodotti culturali – di qualsiasi tipo – è prevalentemente il caso. Il caso ci ha portato a vedere quel film al cinema in una notte di pioggia che è diventato poi il portato generale della nostra esistenza. Per puro caso, abbiamo trovato in una bancarella a Porta Portese proprio quel romanzo di Hemingway, a un prezzo così basso che era impossibile dirsi di no e non iniziare una folle corsa tra le verdi colline venete e africane amate dallo scrittore americano.
Così, è anche per i videogiochi. È il caso quello che mi ha portato con una copia piratata – lo ammetto qui, mea culpa mea grandissima culpa – a giocare a Age of Empires II alla tenera età di quanto, sei, forse sette anni, ed appassionarmi di storia e di castelli come ogni bravo bambin* dovrebbe sempre essere. Sempre per caso, YouTube e il suo magico algoritmo mi fecero capitare su questa canzone qui:
Può capitare di appassionarsi a un gioco semplicemente per la musica, e io e Outer Wilds siamo entrati in sintonia immediatamente grazie alla musica che potete ascoltare – correggo, anzi, che dovete ascoltare – e che sembra ricordare quella sensazione non mai totalmente esperita di essersi persi in un bosco, vicino un focolare, sotto un cielo stellare.
Proprio così parte il gioco che forse, più di tutti, ha provato a ricostruire l’idea di cosa voglia dire esplorare lo spazio e il tempo nella maniera più pacifica e, forse, perfino più corretta possibile. Sfidando le leggi della fisica e della logica classica Outer Wilds è un gioco d’esplorazione e di ricerca, e da qui in poi, sarà anche un po’ ricco di spoiler per voi lettori. Va aggiunta una cosa: per quanto i colpi di scena ci siano, Outer Wilds non si gioca per la trama, ma si gioca per le sensazioni che lascia, quindi, anche se domani vorrete correre a comprarlo insieme all’espansione – che però non ho provato – non vi preoccupate eccessivamente.
In Outer Wilds, sviluppato da Mobius Game, come anticipato, ci si sveglia vicino un focolare e sotto le stelle. Un “sassolino”, come si viene spesso chiamati, un essere senziente abitante di un piccolo pianeta verdeggiante in un sistema solare composto da diversi astri. Nonché, cosa importante, prossimo astronauta della Outer Wilds Esplorazioni, la locale NASA che su una nave che ha il sapore di casa, ci butterà senza nessun ordine in giro per il sistema solare. Sembrerebbe tutto molto semplice, se solo, a contatto con una misteriosa statua di una altrettanto misteriosa razza aliena precursore della nostra, non finiremo in un loop di 22 minuti esatti, scanditi dalla morte naturale del sole del nostro sistema solare.
Da cui, come anticipato prima, un gioco che piazza tutti i suoi puzzle all’interno di una doppia dimensione: quella spaziale e quella temporale. Outer Wilds è un gioco in cui tutto il mondo si comporta come i personaggi di un carosello a tempo di un orologio medievale, come quello di Praga. Ogni 22 minuti, tutto si ripete esattamente per come deve essere. I Gemelli Clessidra – una coppia di pianeti che tengono esattamente il conto dei minuti che passano trasferendo sabbia da un corpo celeste all’altro – sono esemplari in questo. Man mano che la sabbia si sposta da un pianeta all’altro, alcuni enigmi diventeranno inaccessibili perché bloccati e altri diventeranno invece giocabili, perché la sabbia si sarà mossa. Ogni singolo mondo di Outer Wilds è costruito in maniera tale da vivere in un ciclo di 22 minuti, interconnesso con gli altri corpi celesti – incluso di cometa e di una misteriosa luna quantica che appare e scompare continuamente – creando la sensazione di un vivo sistema, in cui andremo a vivere, muoverci, morire e ricominciare per ricomporre e comporre la storia che si cela dietro questo misterioso loop temporale.
Perché alla fine il mistero in piccolo è proprio questo: perché esistiamo e ivi, perché moriamo? Perché il mondo si ripete è solo un problema secondario, alla fine di tutto. Tutto si cela nella domanda fondamentale dell’esistenza umana, che anche in Outer Wilds è presa e ripetuta nella storia degli alieni-Nomai, della loro ricerca per l’Occhio dell’Universo – Dio? Il senso dell’esistere? Non è dato saperlo, ma la risposta c’è ed è personale -, nel loro desiderio di esplorare i misteri dell’universo e della vita anche a costo di far esplodere uno o cento soli. Un popolo che ricalca perfettamente il senso di esplorazione dell’ignoto dei grandi scienziati dell’oggi e dello ieri e si spera del domani, ma anche dell’umanità tutta. Il chiedersi, davanti un cielo stellato notturno, perché è tale? E soprattutto, come e quando finirà?
Outer Wilds è un gioco di enigmi, ma soprattutto di tentativi mai finali, grazie al loop e al ritorno al perenne inizio. Di tentativi e di tentativi di esplorazione, ancora ed ancora, di ricerca perenne soprattutto di un senso a quello che va succedendo nel sistema e nella vita di ognuno. È un gioco di ricerca e soprattutto di esplorazione. Dell’interno dei mondi e del loro esterno, del loro esistere e del loro sussistere, continuamente, in duplici esistenze: come mondi e come contenitori. Non si spara, né si combatte, se non contro il tempo stesso. Che qui diventa da un lato il predatore finale per questo esistere che dura solo 22 minuti, tanto il compagno che porta pian piano, con la mano, il giocatore fino alla sua destinazione finale, quel piccolo bivacco di fuoco e legno, intorno cui arrostire marshmallow – nel gioco si possono arrostire davvero – sentendo la musica dei propri compagni di viaggio, quegli altri esploratori che sono punti fissi in ogni mondo, ritrovabili grazie a uno strumento essenziale in molti enigmi e che allo stesso tempo ci permette di godere della musichetta che ognuno di loro suona, dalla propria astronave o dal proprio piccolo fuoco da campo.
Un altro pezzo essenziale di Outer Wilds è la musica, effettivamente. Non solo perché la colonna sonora curata da Andrew Prahlow è a dir poco favolosa, ma perché la musica e i suoi diventano le briciole di marzapane da seguire per scoprire i segreti dei pianeti e dialogare con gli altri esploratori del nostro gruppo, coloro che ci daranno indizi – se vorremo ascoltarli – ma anche suggerimenti e note, come quella di fissare il cielo a volte, per accorgersi che misteriosamente le stelle stanno esplodendo a una a una. Il tempo, come si sa, sta davvero finendo.
Si vive un costante stato di meraviglia per tutto il gioco, non solo per la creatività con lo spazio viene rappresentato dagli autori e dai loro tentativi – personalmente, ben riusciti – di creare un mondo che sappia di meraviglia. Si vive un senso di eterna scoperta, segreto dopo segreto, mistero dopo mistero, anche dramma dopo dramma. Man mano che si scopre la tragedia, nel senso più greco, dei Nomai stessi, ci si inizia a porsi domande proprio sul senso di vivere una vita in perenne esplorazione, insieme ai suoi rischi, alla mancanza di certezze e di appigli, a quel senso di essere perennemente in bilico come sopra un buco nero pronto a fagocitare.
Il gioco non rende tale riflessione più semplice, ma più familiare. La trasforma in una gita nei boschi, esplorando posti che un po’ si conoscono e un po’ no, come se fossero i momenti di un viaggio in famiglia, in cui si entra tutti insieme e si uscirà, cambiati e diversi, nuovamente tutti insieme. Esplorare vale sempre la pena, credo sia la chiave di volta di Outer Wilds, perché solo esplorando si può scoprire cosa voglia dire vivere, e cosa voglia dire anche esistere.
Una piccola perla nel panorama videoludico non solo indipendente, Outer Wilds è un inno alla creatività – degli sviluppatori e di chi risolverà gli enigmi – ma anche allo spirito vivente e umano di spingersi al di là dei confini, qualunque essi siano, per trovare le risposte ai fondamentali dubbi, che tendenzialmente sono racchiusi in un: perché? Perché vivere ed esistere, anche quando tutto il mondo crolla? (Cosa che, nel caso di Vuoto Fragile, è letterale).
Pochi giochi, come Outer Wilds, catturano bene la sensazione del vuoto e del tentativo di colmarlo, il desiderio umano di riempire la carta nautica con tutte le possibili informazioni e tornare come nuovi costruttori di conoscenza. Pochi giochi, dopo tanta esplorazione, ti lasciano dietro il senso che non conta solo quanto cerchi, ma come, e quali amici e nemici e conoscenze nuove davvero riesci a rendere tue man mano che avanzi lungo il filo del tempo, quello che è corto, stretto, poco. Quei ventidue minuti del gioco che diventano ventidue minuti nella realtà e che, in fondo, rappresentano tutta la nostra vita.
Ci ho messo quasi un anno per finirlo, bloccato più volte dagli stessi enigmi che dimenticavo essere parte di uno stesso grande fiume. Eppure, non ci si sente mai estranei davanti i colori tenui di un’alba su uno dei numerosi mondi perduti di Outer Wilds. Insegna che, pure quando si esplora la vastità dello spazio, della storia, alla ricerca delle risposte e delle domande anche sul come e sul perché, non si è mai davvero soli. Bisogna solo puntare il proprio radar nel modo giusto e ci sarà, da qualche parte, una musichetta familiare pronta a ricordarci che vivere vuol dire scoprire, e vuol dire farlo in compagnia, anche quando sembra di essere tutti solo puntini luminosi in un vasto cielo notturno.