Poesia di Davide Emanuele Iannace
Fulmini
Fu la notte dei fulmini
quella che sconvolse il
mio cielo e il cielo tuo.
Quella in cui ci trovammo a
fissare strade tra le nuvole,
tagliate bianche in quel blu scuro
che facevano tremare
il mondo e i cuori.
Tra i lampi c’erano scie
di un nuovo mondo che si
mostrava improvvisamente nel
bianco generato da Giove,
prima di diventare improvvisamente
un nuovo blu di Notte.
E c’erano nel loro correre,
il senso di esistere, d’essere
piccoli come farfalle in una tempesta.
E quante luci s’andavano accendendo
tra i palazzi addormentanti,
altre spegnendo, quanti
abbracci si consumavano sotto il gioco
del cielo e delle sue nuvole, lo
spettacolo pirotecnico
di un dio notturno annoiato.
E poi ci si ritrova ad amare
quei lampi che scoprono i corpi
e coprono le carte, spingono i
battenti e le persone verso ripari.
E due ombrelli si schiantano e due
persone scoprono d’amarsi sotto
un ponte sconosciuto mentre
turisti corrono tra i ripari offerti
a stento da tetti poco lunghi.
Mentre in una stanza il delitto
di un addio si consuma al ritmo
di un tuono e di un lampo,
e non c’è distanza, perché
la tempesta sembra stringere
anche quello che si vuole separare.
E rimane il caldo, e quel senso di
fastidiosa umidità tra i corpetti
slacciati e i pantaloni
ammucchiati tra vestiti sparsi.
E rimane il senso di essere piccole
particelle elementari in un puzzle
troppo complesso e frastagliato,
sotto i fulmini come solo piccoli corpi
che potrebbero cadere eppure rimangono
ad adorare il cielo.
Che poi, anche quei fulmini,
non sarebbero altro che piccole scariche
se non ci fossero gli occhi
degli amanti a guardarli.
E qualcuno ad impaurirsi, qualcuno
ad amarli per come fanno
stringere a letto gli amanti.