Giri e ritorni di nuove Impronte
Ci sono giorni che hanno un sapore spesso particolare, un po’ diverso, come se si volessero in ogni modo distinguere dalla sequenza di giorni tutti apparentemente, ma mai davvero, uguali che si susseguono lungo l’anno. Un giorno di pioggia e di fulmini a Roma a luglio è uno di quei giorni che rimane particolarmente impresso nella mente delle persone, perché si porta con sé il fresco, lo spettacolo dei fulmini nel cielo notturno che diventa, improvvisamente, di un blu quasi da tramonto temporaneo.
Un giorno diverso perché ha segnato anche il ritorno di Maria Donata Papadia sulla scena romana, nella cornice della Sacripante Art Gallery, con le sue opere della serie Impronte. Ne avevamo già parlato su Just Kids, in un giorno di sole a Trastevere che andava anticipando quella fin troppo calda estate in cui ora siamo immersi. Ironia della sorte, quest’oggi era nuvoloso, piovoso, grigio, come le pareti dell’elegante galleria d’arte e negozio di deliziosi vestiti artigianali, ma di un grigio vivo, non quello polveroso e noioso che tende a rendere monotono l’occhio e a far calare la palpebra.
Impronte, per i lettori che non ricordano il nostro primo report, è il lavoro condotto dall’artista italiana – ma di base nella bella Amsterdam – che si concentra sul trasferire su sottile carta bianca e poi ricolorata, le impronte delle mani, dei corpi, e ora anche dei fiori. La vita che viene a trovare improvvisamente una sua nuova forma immobile all’interno dei lavori della Papadia, su questa carta delicata che si illumina di colori tenui ora, accesi poi, improvvisamente e sapientemente miscelati, dando vita a questi echi senza tempo che sono le Impronte, da cui il titolo.
La prima differenza rispetto il precedente incontro con queste opere è la novità fornita dai fiori. Esseri vitali quanto un uomo, trovano un nuovo spazio compositivo dentro la serie di corpi apparentemente anonimi, ma con nomi e anime che sono lì – tra le righe. I fiori in apparenza sembrerebbero una nota stonata in mezzo a tutti quei corpi, eppure, nella realtà non lo sono affatto. Al contrario, sono quasi una evoluzione del percorso compiuto da Papadia nel corso del tempo e in questo breve intermezzo che ha diviso la prima mostra e questa seconda.
Tramite l’uso di presse e di sistemi ottici per renderli visibilmente più grandi, Papadia è riuscita a realizzare proprio come per i corpi le forme dei fiori sulla delicata carta per poi proporre agli ospiti una forma definitiva multicolore o mono-cromatica, in base al modello. Una tecnica, questa, che quindi si dimostra tanto adattabile ai corpi umani che alla fisicità di oggetti diversi, proprio come i fiori. Sperimentazioni che trovano spazio a Sacripante, e diventano visibili tracce della capacità trasformativa dell’arte di rendere qualcosa di mortale come la vitalità della pianta, improvvisamente senza tempo, schiacciata dalla mano dell’artista prima di essere rilasciata nuovamente come opera a sé stante.
Vita e tempo sono probabilmente due dei concetti centrali in una mostra come quella vista in Rione Monti. Vita e tempo sono i due fili intorno cui la carta finisce per giocare, la vita apparentemente immobilizzata nelle forme cartacee e poi colorate e il tempo che sembra fermarsi improvvisamente per dare nuovi sensi e spazi alle opere d’arte stesse. Vita, perché le opere ricordano sempre quegli echi che non sono echi che è la vitalità stessa che si nasconde tra i modelli e gli oggetti.
È una esplorazione, un grande percorso di esplorazione dei limiti tanto dell’arte che delle sue possibili rappresentazioni, della capacità dell’animo umano di reinventare e di divenire invenzione allo stesso tempo. Se l’arte diventa sperimentazione, allora Impronte cattura appieno il tentativo di rincorrere nuove mete all’interno del percorso di scoperta e riscoperta di questo campo. Di certo, è resa più affascinante questa mostra dall’aver visto il processo nel suo divenire e nel suo evolversi nel corso del tempo, aver visto le nuove forme che viene ad assumere qui, nuovamente a Roma, cambiando soggetti e luogo.
È una nuova esplorazione dei confini tra lo spazio del luogo – questa piccola perla di artigianato e di drink nel cuore di Monti – e quello che invece può diventare un’opera d’arte calata in un nuovo, inatteso, posto. Roma ha dalla sua certamente la possibilità di portare i propri artisti, che ci vivono o che ne sono ospitati, a esprimere in forme sempre nuove il proprio lavoro, spesso semplicemente andando a colonizzare nuovi spazi prima inesplorati, in una continua ricerca del possibile significato che le pennellate, gli scalpelli e le note possono nascondere.
Per questo non sembra affatto strano un ritorno così a breve tempo dalla scorsa mostra di Papadia di nuovo a Roma. Basta cambiare un po’ il dintorno, che anche le opere sembrano assurgere a nuove forme. L’esplorazione tanto dei limiti di quest’arte, di questo uso sapiente della carta e dei colori, diventa anche esplorazione del suo piazzarlo, localizzarlo, in uno spazio diverso e nuovo, far assumere alle possibili infinite combinazioni dei pezzi con gli altri, un nuovo senso finale. La tesi, l’antitesi e la sintesi kantiana diventano un processo in cui una prima lettura delle opere diventano un percorso fatto di osservazione, ripensamento, riposizionamento. Rappresentano oggetti e lenti allo stesso tempo, chiavi di lettura ma anche serrature, in un continuo gioco di riflessione su queste impronte che diventano ora l’oggetto della riflessione, ora la loro spinta.