Poesia di Davide Emanuele Iannace
Prendere
S’era già preso tutto,
tutto quello che si poteva cogliere
in un corpo e in un’anima.
Tirati via come pezzi di carta,
strappati lenti come foglie da un
albero scosso dal vento.
Che era rimasto se non il vago
senso di umanità racchiuso
dietro due occhi vuoti?
Che era rimasto se non il
disgusto e il senso di
non appartenere che all’ombra?
S’era preso tutto, come lei
aveva preso tutto dell’altra.
Della città aveva raccolto
esperienze e storie, le aveva
fatte sue e poi vissute. E ogni cosa
l’era costata poco a poco, pezzi di cuore.
Erano rimasti due occhi colore del
legno di quercia fresco estivo.
Erano rimasti capelli fini tenuti
lunghi per arrivare dove le mani di
altri non erano più concesse d’arrivare.
Era rimasto l’osso di un corpo oramai
docile al tempo e al vento.
S’era preso tutto, quel mostro di
palazzi bellissimi e finestre dietro
cui correre ad amare, odiare, abbracciare
fino a disperdersi come polline
nell’aria chiara d’estate e sudare
per il corpo di uno sbagliato.
Com’era sbagliato il primo, lo era
il poeta, lo era il musicista, lo erano
le note delle canzoni lungo il fiume.
Non c’erano luci giuste, in nessuna di
quelle giuste notti. C’erano anguste strade e poi
tradimenti, e poi baci rubati, e poi rapporti
consumati come bicchieri di whisky, profumati come
le sigarette lasciate spegnere da sole.
Cosa rimaneva dopo la città se non
la pace dei sensi e l’oblio di
lunghe notti alle tre del mattino ad
aspettare un altro suono, un altro cenno
forse di una sirena, forse di un pianoforte,
forse di una voce, forse di un addio,
forse di una partenza verso
altre città e altri porti,
forse altri villaggi, forse
i miei stessi passi.