Racconto a cura di Valentina Calissano
L’ispirazione
Con questo racconto Il Trip compie un anno. A distanza di circa dodici mesi sembra che questa rubrica segua ciclicamente il ritmo delle stagioni. E quando inizia l’estate nei racconti il grano e i prati si fanno più forti, appaiono quelle distese infinite e selvagge della campagna, intervallate solo a tratti da fiumi o dai canali.
La prima storia era ambientata in un paese di mare e di campi ce n’erano pochi, è vero. Ma le immagini che sono apparse sono dominate dagli stessi colori. Il cielo è così azzurro, i prati crescono e si moltiplicano a dismisura.
Certo è l’ispirazione che cambia. Tutto qui ha inizio su un furgoncino. Un van che alla sera, alla mattina e a mezzogiorno diventa locanda all’aperto. Un food truck, per utilizzare un termine diffuso e comodo.
E questa idea del pulmino, rosticceria e caffetteria due in uno, si sposava benissimo con il primo brano di Time for Revolution, album di debutto dei Mudfight. Loro accendono i motori del punk-rock, il protagonista di questo racconto ferma il pulmino e scalda i fornelli!
Anche lui fa una rivoluzione: vuole portare il buonumore ovunque vada. E stavolta la sfida sarà bella tosta, perché nella campagna non tutti gli avventori sono allegri e simpatici.
Buona lettura!
Sabato, pomeriggio.
Il sole distante, ma implacabilmente torrido, guarda ancora l’autostrada, un po’ di sbieco, un po’ arrabbiato. Dallo stereo escono le corde e le bacchette, le vibrazioni violente delle note schiaffeggiate dal punk rock a scacchi rossi, neri e bianchi. Fa caldissimo in questo van e dal retro mi arriva il profumo della cena di ieri e dei panini a lievitare per domani.
Alle mie spalle, raggomitolato nella sua morbida cuccia, Dragon, mezzo lupo tutto pelo e niente arrosto, sta russando senza sosta, ma il suo grufolare è in perfetto accordo con la graffiante radio.
Sono ore che questo asfalto va sempre dritto. È ora di cambiare!
Mi infilo tra un camion e l’altro della carovana. C’è chi mi insulta e chi illumina a giorno l’abitacolo stretto e lungo del mio piccolo pulmino, ma in una corsa sono fuori dal casello, sommerso nei campi di grano ancora verdi e odorosi di primavera. Poche case annunciate da alti archi a tutto sesto, rustici di mattoncini aranciati, si affacciano sparpagliate in minuscoli sentieri sterrati. Tra le farfalle bianche e le rondini sfuggenti il panorama si moltiplica oltre il vetro ad ogni curva, interrotto solo da qualche torrente marcescente e affollato di moschini.
Sull’unico stradone esistente, scuro e protetto a destra da un logoro vecchio guard-rail il sole indugia sull’orizzonte e ogni tanto si ferma per lasciar attraversare qualche piccola e allungata nuvoletta. Una striscia azzurro pallido apre il cielo oltre il parabrezza, distendendo il dipinto infinito della romita campagna tranquilla.
Vedo una cunetta, poi un ponte e subito dopo averlo passato… lo spazio sufficiente per accamparsi.
È una lieve pendenza sporcata da una strada di brecciolino e sassi. Parcheggio nello slargo e lascio che il motore si addormenti con un tonfo. Non faccio neanche in tempo ad aprire la porta sul lato che Dragon è già a correre tra fiori rossi e viola che accolgono ancora per qualche ora le pallide cavolaie. La sua coda, chiusa in una chiocciola vaporosa, emerge a malapena tra gli incolti fili d’erba e le zampe, grosse e pesanti, disegnano un sentiero abbattendo le erbe selvatiche.
Torno dentro al furgoncino e controllo l’impasto che dorme nel forno buio e spento. È cresciuto, per questo lo giro e lo rigiro prima di rimetterlo a dormire, fino a domattina.
Splash: guardo dalla finestra dietro. Dragon sta nuotando verso un legnetto che galleggia sul pelo del canale sporco. Mi sa che stasera si mangia farinata e basta. Mi tocca lavare e asciugare il cane.
Domenica, mattino.
Drin, drin drin. Driiiiiiiiiin.
No, non ho un telefono sul bus, ma una simpatica campanella da reception arrugginita, trovata una volta in un mercatino delle pulci.
«Insomma, c’è qualcuno si o no?».
Entrando dal retro mi affaccio al finestrone sul lato del pulmino. Osservo il bancone, attento a posizionare lontano dal bordo e dal sole un cestino di vimini carico di erbette, quando di nuovo quella voce profonda sceglie un tono sgarbato: «Era ora! Guardi che non ho tutto questo tempo da perdere. Qua bisogna lavorare!».
Finalmente la osservo. Ha un volto quella voce, ammaliante sebbene scontrosa. Ha le sopracciglia sottili e ben curate, le labbra sporgenti, scure e calcate di rosso purpureo, un naso piccolo e tondo che a fatica sorregge degli enormi occhiali da sole a specchio. I contorni dorati della montatura fanno il paio con dei vistosi orecchini ad anello, scoperti a forza sotto un casco nuvoloso di folti capelli neri, riccioluti, tutti sottili e aggrappati l’uno all’altro nelle impercettibili volute.
«Da dov’è che viene? Con questa camionetta del dopoguerra. Ieri mica c’era».
La giovane donna continua a sbraitare senza volere davvero una risposta. «Guardi che se vuole restare qui si deve dare da fare, eh!».
Le sorrido. Ogni provincia è fatta a modo suo, ha i suoi ritmi, le sue abitudini. Ogni paese richiede specifiche competenze a chi vuole restare, è un superiore che non richiede professionalità sul lavoro, ma pretende che i nuovi arrivati siano come tutti gli altri abitanti. Ad esempio qui sembra fondamentale dimostrare di essere sempre pronti.
«Buongiorno a Lei. Le preparo una ricca colazione?», meglio andare al sodo.
«Ma che ricca colazione. Due pranzi al sacco, veloce. Che sennò faccio tardi per la gita fuori».
«Agli ordini! Due panini, tante proteine e niente grassi», ho già capito che la linea è tutto per lei. «Le posso consigliare anche il tè freddo fatto in casa? Un litro e mezzo viene quattro euro, ma la bottiglia in vetro è in regalo».
«Ecco, bravo. Col tempo che mi hai fatto perdere è meglio che me la regali».
Preparo tutto di corsa. I panini sono già caldi e ho dei sott’olio aperti da poco. Mi concedo solo il tempo di accendere la radiolina rossa portatile, così Janis può salutarmi chiamandomi «honey» e cantare sopra ai mirabolanti giri di blues della band. La fretta svanisce dalle mie orecchie, sento il sapore dell’ottimismo pervadere il mattino.
Così aggiungo qualche tovagliolo a quadretti blu e bianchi alla confezione, un tarassaco giallo a chiudere la busta e saluto la mia prima cliente in questi campi infiniti.
Lunedì, mattino.
Drin, drin drin.
No, non ho una sveglia sul comodino. A dirla tutta non ho neanche il comodino e sono in piedi dall’alba. È lunedì e so che qualcuno sta per andare a lavoro. Attraverso lo stradone e torno al pulmino.
«E allora, ma dov’è questo qua?».
Non mi ha ancora visto, io invece studio la sua schiena. Ha spalle larghe, ben definite dalle imbottiture della giacca di gessato grigio, i pantaloni dritti a piombo fino alle caviglie si incontrano con degli stivaletti lucidi a mezza punta. È tornata.
«Buongiorno, ben ritrovata! Era buono il pranzo ieri?», spero di sorprenderla e già pregusto il successo sorridendole.
«Allora», ma lo stupore, la paura, la meraviglia non attraversano la sua mente. È già proiettata nel futuro, negli impegni che dovrà affrontare in questa nuova giornata di lavoro, in quest’altra settimana che arriva ed è già snervante. «Fa le colazioni anche oggi?».
«Preparo sempre la colazione. Cappuccino e brioche?», investito dalla gioia salgo in un balzo sul pulmino e mi pulisco le mani sul grembiule color canapa sgualcito. Sono pronto a sfornare i fagottini arrotolati al cioccolato, profumati e fragranti, ma subito vengo bloccato: «No, macchè! Un espresso corto, liscio, senza zucchero. Veloce che sono di fretta».
Mi volto a guardare i fornelli, a squadrare la mia fedele macchinetta. Sta soffiando innervosita anche lei, fa il suo brontolio caratteristico, mentre un fumo sottile e biancastro fa capolino dal beccuccio. Ecco che la caffeina percorre tutto l’abitacolo e si lancia oltre il finestrone aperto. Che fortuna!
In men che non si dica ho già preparato due tazzine, una per lei e una per me.
Ma lei è più veloce di me. Chiudo gli occhi per gustare appieno la macina e quando ritorno alla realtà vedo solo due monetine sul bancone. Non faccio neanche in tempo a salutarla che sta già sgommando su una monovolume compatta grigia e scintillante.
Questo luogo, questo mondo nasconde la sua vera natura. Proprio come quella donna, così incapsulata nella vita da pendolare dedito alla carriera e alla scalata sociale da dimenticare di pensare a se stessa, di dedicare almeno lo spazio di un caffè alla sua esistenza, di riflettere sulle sue origini, di ricordare chi è.
Eppure anche lei serba il suo racconto nel cuore. Lì, nell’intimità dell’animo, cose come il ritmo frenetico del lavoro incessante non possono raggiungerci. È uno spazio puro e celato, protetto da un guscio che può essere svelato solo dal suo possessore.
Con un fischio chiamo Dragon. Esploriamo questa zona, addentriamoci nei campi di grano che sembrano ancora dormire.
Lunedì, sera.
Per cena farò ancora farinata, ma la arricchirò con i carletti che ho raccolto oggi lungo l’argine. Pulisco bene i rametti più robusti, di quelli userò solo le foglie. Invece i germogli e gli steli più sottili sono già pronti, li tuffo nell’olio sfrigolante insieme a uno spicchio d’aglio. Poi arriva la pastella di ceci. Ecco, mentre la mistura va a fuoco lento posso passare a grigliare le verdure. Alcune melanzane, delle piccole zucchine e un paio di lucenti peperoni, uno rosso uno giallo, finiscono sul fuocherello. Scoppiettano di quando in quando e rilasciano un profumo arrostito tutto intorno, un profumo che sa di libertà.
Appollaiato sul treppiede da campeggio rimango ad ammirare ammaliato le braci calde, rossicce e vivide nel loro ardere incessante.
Sding! Il forno. Ho preparato cinque brioche, tre salate, per il pranzo di domani, due dolci. Ora diffondono in tutto l’abitacolo un aroma di cereali e lievito irresistibile.
Una macchina si ferma sullo spiazzo, grigia e luccicante. I fari inondano la cunetta e si concentrano sul vaso di fiori che ho appeso alla veranda. Corro ad aprire uno dei tondi tavolini color pistacchio che di solito occupano tutto lo spazio davanti al furgoncino. Per stasera uno solo basterà, con la sua tovaglia celeste e i tovaglioli di stoffa ricamati con fogliette e fiorellini di campo.
«Prego, si sieda», mi rivolgo direttamente alla figura slanciata che avanza verso di me. «Presto, prima che il ristorante chiuda».
Con le morbide labbra color prugna serrate e gli occhiali a specchio ancora adagiati sul naso tondo, scudo di protezione per lo sguardo, si accomoda senza rispondere. È ancora in silenzio quando porto in tavola la farinata e le verdure arrostite.
«Avrei voluto suggerirLe del vino, ma credo sia meglio un rigenerante succo d’arancia senza zuccheri fresco di giornata. E ora prego, la cena è servita!».
Mi allontano con un inchino, diventando invisibile per la taciturna ospite. Ma rimango nell’ombra a sbirciare.
La sto fissando. Voglio guardare il suo viso scoperto, senza quei dorati occhiali a specchio.
Invece nulla, la mia aspettativa viene delusa e tradita. Non posa gli occhiali sul tavolo, non li solleva tra i ricci tondi, raccolti nella ferma sfera scura. Invece mangia senza fretta, senza far rumore, senza commentare. Tiene la schiena dritta e i gomiti vicini alle costole, come se fosse in un grande lussuoso ristorante, costretta a rispettare l’etichetta.
Finisco le verdure senza nemmeno accorgermene. Per la noia mi metto a strimpellare.
Non ho una chitarra elettrica, non ho un amplificatore o un mixer. Nel poco spazio del van posso portare solo un ukulele e per quanto posso esercitarmi all’inizio escono solo note sgangherate. Le dita sono fredde, ma non smetto di provare. Ad ogni nuovo tentativo i muscoli si distendono, si scaldano e alla fine riesco a completare il giro senza intoppi. Sto ancora pensando a Janis con la sua band, malinconica ma fortissima, libera da qualsiasi pregiudizio.
Vorrei mettermi a cantare, ma qualcuno mi precede. È un’ottava sopra al mio tono e lo sbalzo mi strega. La voce calda si accosta alle note e le fa vibrare con una lieve distorsione armonica. È lei.
Senza togliersi gli occhiali si volta verso di me: sono sicuro che mi stia guardando. Conosce la canzone e allora per invitarla a continuare picchietto sul bordo della cassa, così lei esibisce il suo bel canto.
Un usignolo dalla voce profonda e limpida, capace di provocare qualche sbavatura dal sapore soul. Sembra abbia sempre cantato.
Un pezzo dopo l’altro continuiamo a cantare e suonare. Non ci avviciniamo, non balliamo, non ci sfioriamo. Sono alte le stelle ed è rimasta solo la luna a mostrarmi le corde dell’ukulele quando finisce il mio repertorio. Poi le sue dita si stringono sulla montatura dorata degli occhiali. Le unghie corte, tonde e laccate di lilla sollevano il bordo di una lente. Lunghe ciglia corvine e fitte si schiudono lasciando intravedere le scurissime pupille, circondate da un’iride che pare un braciere infinito.
Me la ritrovo accanto, mi incendia con gli occhi accesi e bollenti.
«Tu andrai via domani. E non saprai mai il mio nome». sembra una profezia. «Non ricorderai il mio volto e nessuno dovrà sapere dove mi hai trovata. Se vuoi raccontare questa storia nessuno dovrà sapere nulla di questo posto. Racconta ciò che vuoi, ma non pronunciare mai il nome di questo luogo. Dammi la tua parola, devo esserne certa».
«Hai la mia parola». Accolgo così la sua imperiosa richiesta. Una frase segreta, una formula magica che la porta a distendersi, a pulire le lenti sulla camicetta bianca di viscosa sottile. Poi di nuovo copre con gli occhiali i due crateri di fuoco che mi hanno ipnotizzato fino a quel momento.
Mi alzo e torno poco dopo accanto a lei con un sacchettino di carta arrotolato.
«Andrò via domani, senza lasciare traccia. Ma partirò molto presto. Nessuno ti preparerà il caffè, quindi anticipa la sveglia di dieci minuti e forse potrai sorseggiare qualcosa che si avvicina a quello di stamattina».
Non so se mi ha ascoltato, stava aprendo l’incarto: «Non mangio dolci».
«Stavolta si. Nessuno ti vede, nessuno sa che sei stata tu a mangiarlo».
Ma è già sparita.
Il colto è saldato, il sacchetto volato via. In una folata di vento è già ripartita, i fari della luccicante compatta grigia stanno inondando un altro argine.
CREDITS
TIME FOR REVOLUTION – MUDFIGHT
Tracklist
Time To Shine
Another Boy
Baby! Hey!
Revolution! Rock’n’Roll feat. Brenna Red
Rebels To the Top
Over My Shadow
No Stopping Me
Humanity
Buried Future
Nothing Left
Voce: Max “Max Nine” Weidinger
Basso e voce: Leo “Bonsai” Weidinger
Chitarra e voce: Alex Lausegger
Chitarra: Olly Veit
Batteria: Dominik Neugebauer
Distribuito da SBÄM Records
BIO
Cinque sono i componenti dei Mudfight, gruppo austriaco che ha debuttato a luglio 2022 con l’album Time for Revolution, distribuito da SBÄM Records. L’uscita del disco è stata preannunciata con il singolo Baby! Hey! lo scorso aprile.
Ciascun pezzo conferma la dichiarazione pronunciata da ogni fan del genere: il punk non è finito. È ora di tornare a fare la rivoluzione! Una canzone dietro l’altra, i Mudfight si scatenano in un punk-rock nuovo e reattivo, frutto di due anni di lavoro.
Max, Alex, Oliver, Leo e Dominik prendono le mosse dai loro eroi musicali e portano avanti la rivoluzione del punk rock con abilità, nonostante la loro giovane età. Prendono il pop-punk degli anni ’90 e 2000 dal garage un po’ polveroso, lo combinano con elementi di funk, metalcore, pop-rock e grunge e lo propongono in una veste tutta nuova.
Sono capolavori come Dookie e All Killer No Filler a ispirarli. E tuttavia i Mudfight puntano a un punk che combina i valori del passato con i temi del ventunesimo secolo.
Subito dopo l’uscita dell’album il quintetto ha iniziato un tour che porta la loro musica in giro per l’Austria quest’estate.