LE INTERVISTA DI JUST KIDS SOCIETY: JOHNNY DALBASSO

Intervista di Gianluca Cleri

Una ripartenza che segna subito il passo. Non potevamo che riprendere la nuova stagione del salottino sociale di Just Kids Magazine con un disco come “Lo Stato Canaglia” di Johnny DalBasso. E qui critica allo stato delle cose come anche al modo liquido di stare al mondo non è affatto un manierismo modaiolo per riempirsi la bocca e far bella la propria scena. Un disco come questo è ruvido nel suo essere “punk” (con tutte le derive che questo significa) e in fondo sa anche come stuzzicare l’appetito di chi alla parola non chiede solo immediatezza. E così si apre la nuova stagione di Just Kids Society:

Questa stagione di Just Kids Society vuol parlare di futuro. Una cosa incerta sotto tanti punti di vista. Parliamo del suono tanto per cominciare. Ormai i computer hanno invaso ogni cosa. Si tornerà a suonare la musica o si penserà sempre più a come comporla assemblando format pre-costituiti?
Un tempo avrei risposto in modo più radicale parlando male dei computer, dei loop ecc… Oggi mi sento di dire che se riesci a esprimere qualcosa di artistico (ed è proprio qui la pecca di certe produzioni) anche assemblando loop o suoni preimpostati per me va bene, ma lo devi fare in modo ispirato. Se si usa il pc per superare lacune quali l’incapacità di suonare o di scrivere un testo o pensare a una melodia mi trovo ancora con la vecchia scuola legata alle ore passate sullo strumento e alla fame di volersi superare cercando di conoscere sempre di più, anche da autodidatta, la musica. Oggi esistono esperimenti, a cui io stesso ho partecipato, di composizione musicale da parte di intelligenze artificiali e devo dire che, se dobbiamo davvero parlare di futuro, dobbiamo cominciare da qui, mica da Thasup.

Sempre più spesso il mondo digitale poi ha invaso anche la forma del disco. Ormai si parla di Ep, di singoli. Di opere one-shot dal tempo limitato. Qualcuno parla di jingle come forma del futuro. E dunque? Se da una parte c’è maggiore diffusione, dall’altra c’è maggiore facilità di produzione. Dunque… chiunque può fare un disco. Un bene o un male?
Sicuramente un male. 

La pandemia ha ispirato e condizionato molta parte dell’arte di questo tempo. Ma sempre più spesso gli artisti inneggiano ad un ritorno a cose antiche, ataviche, quasi preistoriche come certe abitudini, come un certo modo analogico di fruire la musica. Insomma, ha senso pensare che nel futuro si torni a vivere come nel passato?
Credo che un giorno internet, per una ragione o per un’altra, smetterà di funzionare, forse per un periodo relativamente breve, ma proprio in quel momento capiremo che il digitale ha dei limiti molto più ampi di ciò che vediamo oggi. Diciamocela tutta, è fantastico avere tutta la musica del mondo su un dispositivo relativamente piccolo e poterla ascoltare quasi ovunque, ma, come per i libri e la lettura, certe forme e certi oggetti che contengono suoni a me eccitano ancora. La cosa che odio della musica liquida è che vengano conteggiate le visualizzazioni e gli ascolti, una lotteria davvero triste. Spotify sì, ma senza numeri.

Ed è il momento di scendere dentro questo disco. “Lo Stato Canaglia” ci riporta decisamente dentro un “punk” (passami la sintesi di genere) e dunque dentro il nervosismo di quartiere, il suono acido delle province, le notti dei centri sociali. Tutto questo però ormai è solo storia, coperta e soffocata dagli smartphone e dalla liquidità delle nuove generazioni e del nuovo tempo. Dunque secondo te questo disco come riesce a parlare alle nuove generazioni?
E chi ti ha detto che voglio parlare alle nuove generazioni?



Anche in questa stagione riproponiamo una domanda che sinceramente non passerà mai di moda anche se le statistiche un poco stanno dando ragione a tanti come noi. Parliamo tanto di lavoro ma alla fine vogliamo finire in un contenitore in cui la musica diviene gratuita. E Spotify è uno di questi. Non sembra un paradosso? Come lo si spiega?
Come ti dicevo in qualche risposta fa, Spotify è un mezzo geniale che però ha in se tutti i mali di questo tempo: prima di tutto, visto che è a pagamento dovrebbe pagare bene gli artisti con gli introiti degli ascoltatori e non con le briciole; inoltre se tu artista non hai un po’ di autocritica potresti davvero caricare ogni giorno un disco pieno di sbadigli o altri rumori corporei (e non per questo non avere successo) oppure iniziare a spendere soldi per far crescere i numeri degli ascolti e gonfiarti l’ego. Vedo nella filosofia di spotify il colpo di coda del nostro modo di vivere occidentale, ostentando un finto benessere quando invece stai regalando i tuoi sforzi e le tue storie a un gruppo di manager, da quel che si è capito, senza scrupoli.

Siamo nel tempo dell’apparire. Come ci si convive? Si esiste solo se postiamo cose? E se non lo facessimo?
Penso che l’apparire debba essere fondato su una grande sicurezza in se stessi e riguardo a ciò che si sta facendo. Se un artista ha fatto un buon prodotto e lo pubblicizza in modo appariscente o i suoi stessi show lo sono, in quel caso apparire fa parte del gioco e lo trovo interessante. E poi, se vogliamo giocare con le parole, io personalmente preferirei restare piuttosto che apparire come fanno molti che poi, puff, scompaiono.



A chiudere, da sempre chiediamo ai nostri ospiti: finito il concerto di Johnny DalBasso, il fonico cosa dovrebbe mandare per salutare il pubblico?
Come sempre “Louie Louie” dei Kingsmen, che resta un pezzo in cui c’è tutto il passato e tutto il futuro della musica: non si capiscono le parole e ci piace comunque, è registrata male ma suona benissimo, ci sono degli errori e li hanno tranquillamente lasciati, e nonostante questo non è un pezzo trap. Perfetta.

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