Intervista di Gianluca Cleri
Ci sono dischi che scivolano senza particolari fermagli e increspature, scivolano portandosi via anche quel senso di utilità, di ragione ultima e di motivazione. Tutto scorre e alla fine dell’ascolto ci si chiede: si bello… ma? A noi che amiamo la musica e divoriamo dischi ogni giorno, direi che è ben nota questa sensazione. Bello si… ma? Ecco… ecco quel che non succede dopo aver ascoltato uno qualsiasi dei brani contenuti nel nuovo disco di Lucio Matricardi dal titolo “Non torno a casa da tre giorni”. Bello si… e capita di riascoltarlo, di volerlo riascoltare… capita di volerci entrare dentro come fossimo bambini. Perché i bambini, in un modo o nell’altro, sembrano essere i padroni di casa. Ma questa è una sensazione tutta mia.
Il cantautore marchigiano sforna un disco umile ma denso di ispirazione, che se dalla prima traccia dal titolo “Mozambico” mi rivoluziona la saudade e mi inonda di esotica voglia di vita, dalla seconda stazione di posta dal titolo de gregoriano “Hanno ammazzato Lino” dimostra un’elettronica nuova ad uso e consumo di un livello alto di pulizia lirica e narrativa. Matricardi piace e graffia quando apre la sua voce dalla timbrica poco accomodante forse ma assai efficace per dare aria alle parole e sottolinearne la forza. Sempre. In “Gioia clandestina” sposa a pieno i grandi tratturi della canzone d’autore ampiamente battuta dai mostri sacri ma ad onta di tutto c’è una personalità che non scende a compromessi: niente di nuovo mai ma tutto di personale. E qui ritroviamo Paolo Capodacqua nelle rifiniture delle chiuse dei significati, ritroviamo Fabi nella leggerezza metropolitana e quotidiana dei messaggi… ritroviamo Mannarino dentro i fumi popolari di “La manna dal cielo” (anche un bel video ufficiale a corredo diretto da Alessandro Negrini) e penso che non sia solo questo il momento di alto impegno sociale che Matricardi mette in gioco lungo la via.
E che dire di “Notte messicana”? Beh ecco il mio personalissimo punto debole del disco… con la ovvia riserva mia nel non aver io capito qualcosa o qualche citazione opportuna, direi che un brano del genere svende al pubblico troppe aderenze alla più famosa “Titanic” di De Gregori. Troppi rimandi, troppe adesioni, troppe analogie anche strutturali. Ripeto, a meno che non sia ben dichiarato in un qualche dove che mi sta sfuggendo (pronto a chiudere scusa), direi che è un percorso estetico e metrico che avrei evitato. E per riprenderci, gioco sul tavolo due ingredienti importanti: il gioco funambolico e di una dolcissima fiaba infantile che torna anche dentro “Che stupida l’immensità” e poi l’alcool cadenzato e misurato per una serata contemplativa di libri, pioggia sui tetti, un lume e una penna pronta a scrivere. Perché il disco di Lucio Matricardi mi ispira tantissimo questo scenario, nei testi che non sono ricercati ma sono veri e sono sentiti e sono umani. Ascoltate la morbidezza di “Quella che non sai” e che belle le aperture corpose di una produzione più “rock” di “Il Leviatano”… e che danze vedo scorrere in salone durante la giostra che lenta si muove al suono de “La gabbia del canarino”…
“Non torno a casa da tre giorni” è un disco che prende in prestito molte cose… ma tante altre ne restituisce e penso che ormai dischi simili siano pochi e sparuti, presi come siamo ad accontentarci di estetiche facili, solamente scopiazzate e scopiazzate spesso male. Qui c’è l’uomo, c’è la sua voce quotidiana, c’è la sua semplicità. Un bel disco che alla fine dici “Bello si… e ora rimettiamolo da capo”!!!