Recensione di Grace of Tree
Quando il trip comincia non avvisa mai, parte spesso in sordina, si alimenta nel cauto incedere di dischi che sembrano incuriosirti un po’, ogni giorno un po’ di più… giusto quel tanto necessario per risucchiarti lentamente in un incantesimo “mistico-sensuale” di rara e inattesa bellezza. Non v’è scampo, insomma. Sono in ostaggio. Anzi, sotto assedio. Le barriere da infrangere erano davvero tante e sentirle scricchiolare tutte intorno odora di resa, l’unica dignitosa strada per uscirne in autenticità.
Che i Marlene Kuntz fossero un’eminenza musicale mi era già noto, sono cresciuta con continui incitamenti alla loro musica da parte dei miei coetanei sempre più esaltati da quell’avvincente connubio di “dolente-tremante-ardente” poesia e irruenti sonorità simile a deflagrazioni in quell’universo ostile e soffocante che asfissia, soprattutto, la gioventù. Li ho presto archiviati col bollino di post-punk americano, molto noise, vicino a deliri sonici o a un’estetica musicale vissuta più come una minaccia alla mia ricerca di Bellezza, ancorata alla speranza come ad una redenzione, che ad accanite indagini nel malessere esistenziale.
Mi sbagliavo.
Il mondo dei Marlene Kuntz, da quanto comincio ad intuire ora, è una lenta ansimante risalita in un abisso di Bellezza e intensità che ci attende al varco della nostra inquietudine. Non sappiamo mai se precipiteremo in grembo alle paranoie più stagnanti ed inconfessabili o ci leveremo in un’estatica contemplazione della vastità del nostro sentire… per poi franare nella più acida malinconia. La contemplazione, alternata allo sbattimento ruvido e feroce dell’inquietudine, convive con raffinate atmosfere sonore nelle stesse partiture incendiarie di sinuosa intensità, mentre le liriche ci traghettano in ammalianti visioni di sogno e realtà che Godano disegna con le sue parole così dense, “sapientemente scelte” e rivelatorie di stimolanti percorsi letterari messi a disposizione dell’ascoltatore più curioso.
Roba da perdersi in un’incontrollata atterrita felicità!
Vi avverto: Nella tua luce rapisce e seduce tutti i sensi possibili, sollazza la mente, trascina l’anima nella penombra del pudore piú schivo… e lo erge al più raffinato dei moti del cuore.
Ecco, la penombra! È questa la mia percezione mentre muovo i passi timorosi nella prima omonima traccia del disco. Nell’antistanza dell’incombente rivelazione, non da luce vengo abbagliata, quanto di un suo riverbero sul volto dei Nostri che decidono di stazionare, a un passo dallo svelarsi della Verità, per contemplarne lo splendore attraverso l’ispirazione di una musa. Che ella sia Klizia di Montale o Beatrice di Dante non importa, trattasi di Grazia femminile, di quella che, forse, porta il nome di Poesia. Come in un quadro di Hopper, la tensione immobile e contemplativa di questo mistero nella propria solitudine stigmatizza la visione di questa anteprima di verità.
Cosa c’è prima dello svelarsi della luce, verrebbe da chiedersi? E quanto si ha paura di goderne? Forse è meglio fermarsi quell’attimo prima di goderne totalmente per paura di perdersi nell’oblio di sé. Come in un capovolgimento di intenti, ancora avvolti in orditi stratificati e visionari di chitarre e archi ammalianti, fa il suo ingresso proprio Il genio (L’importanza di esser Oscar Wilde), un’esaltazione dell’ego caustico e geniale di Oscar Wilde, pronto a spettinarci i pensieri con un sound vigoroso ed un accattivante rimaneggiamento delle sue frasi più celebri. Un pensiero zampilla solitario: l’ambizione dell’accettazione totale e indiscussa del genio senza fraintendimento alcuno, finalmente. Cosa vorrà dirci Godano? Chissà… 🙂
La terza intensa traccia, Catastrofe, si avventura nel sociale con autentica e mai edulcorata compassione descrivendo la parabola discendente di una famiglia che conosce la disperazione dei senzatetto, del “vedere noi quando non si è più tra noi”. Le paure riflesse dentro di noi si accompagnano a una melodia che da delicati arpeggi evolve in un crescendo quasi epico che grida l’impotenza e la frustrazione di una solidarietà che “mi nausea perchè è sterile.”
La figura femminile torna ad ispirare il brano successivo che, a mio avviso, è di incantevole bellezza. Osja, amore mio narra la storia di Nadežda Mandel’štam, una scrittrice russa di origini ebree, moglie del poeta acmeista Osip Mandel’štam e, come lui, vittima delle grandi purghe staliniane che la costrinsero all’esilio dall’Unione Sovietica. L’arresto del marito, destinato purtroppo alla morte, la spinse a tramandare le sue poesie imparandole a memoria. Sonorità a tratti ossessive e claustrofobiche si alternano ad ampi afflati di struggente nostalgia per un amore che si fa tempio ed infine custode di un’anima consegnata così all’immortalità.
L’amore che salva l’Arte. L’Arte che salva l’Amore. Non conosco un concetto più potente di questo. Ok, Godano ci ha stregato! La sua poetica è un atto di amore e, come confessa poi, di autentica Seduzione intellettuale che rimanda alla cura guardinga e meticolosa con cui “scegliere certi colori meno graci per dare vita ai sogni spudorati ricchi con arsissima passione.”
Un’altra dolorosa pagina contemporanea viene indagata con estrema delicatezza ed incisività nelle vicende di Adele, una donna vittima di stalking, prima che il disco prosegua con la magica Su quelle sponde, un brano in cui l’inquietudine incalza sottopelle e il patimento di essere/sentire trovi tregue momentanee nell’Arte in attesa che la vita torni a infrangerci sulle sue rive e poi cullarci nelle sue risacche.
Le chitarre tornano a ruggire nei brani successivi, come Giacomo Eremita e la galvanizzante Senza rete, mentre il suono poderoso e compatto rimanda a quell’indomita ruvidezza che scalpita più viva che mai tra le pieghe di nuove consapevolezze. Il vortice sonoro cede il passo, sul finale, all’introspezione de La tua giornata magnifica e Solstizio, due brani in cui la continua alternanza di luci ed ombre attanaglia l’animo di chi è venuto a patti con la propria serpeggiante inquietudine, mai completamente domata, ma accolta e ridimensionata con la speranza nella Luce e la consolazione dell’Arte.
Il buio è sempre in agguato; forse sta lì solo per ricordarci che la Luce è l’unica scelta coraggiosa per chi anela a vivere in pienezza ed integrità. Con questa parola concludo volutamente il mio viaggio nel disco: Integrità.
Non dev’essere facile, infatti, essere sotto l’occhio di estimatori estremamente esigenti da più di vent’anni. Riuscire a mantenere integra l’ispirazione, accogliendo il cambiamento come mezzo per definire nel tempo un’identità, è la cosa che più mi ha colpito nell’evoluzione di questo gruppo; a maggior ragione se questa ricerca ha inimicato loro una parte dello “zoccolo duro” dei vecchi fans. Non intendo dire che si debba essere passivi nell’ascolto o non esprimere il proprio gradimento, questo no; ma la violenza di alcune critiche mi fa credere che sia più facile per alcuni chiedere all’Arte ed ai suoi mezzi di piegarsi alle proprie aspettative -per un egostico uso e rassicurante consumo- che lasciarle tracciare inattese evoluzioni.
Ma davvero si può credere che un artista componga con le stesse modalità espressive a quarant’anni come a venti? Come se l’autenticità di qualcuno possa esplicarsi in una stagnante coerenza di riflessioni, intenzioni o reazioni? Ho serie difficoltà a immaginare un percorso artistico come qualcosa di scisso dalla maturazione personale e credo che l’esperienza finisca per stemperare l’irruenza del proprio ego a favore di una comprensione più ampia dell’essere. Questa “raffinazione”, simile ad una sottrazione/levigatura che lascia emergere un’Identità, si può riflettere in un’evoluzione artistica che rischia di apparire ad alcuni come un “rammollimento” (giuro! Una volta ho letto proprio così!).
Non so voi, ma io non ho alcuna nostalgia della paura e insicurezza celate dalla rabbia dei miei fulgidi vent’anni, né necessito di roboante stordimento o distorsione per sentirmi viva e ardente, anzi, a volte, preferisco fare silenzio intorno e ascoltare. Non rimpiango l’irruenza più fragorosa, apprezzo invece i tentativi di domarla con il più sexy degli strumenti: la testa. Una sana pogata, certo, non potrà mai togliercela nessuno, ma non facciamone un falso clichè di ciò che è rock e non lo è. Il rock, il tormento, la ribellione e la spossatezza del vivere possono essere anche fatti a pezzi da una voce tagliente che ne fende l’inquietante tensione, nel silenzio… e la cosa più rivoluzionaria, per me, è aver voglia di sperare ancora.
NELLA TUA LUCE – MARLENE KUNTZ
(Columbia Records, 2013)
- Nella tua luce
- Il genio (L’importanza di essere Oscar Wilde)
- Catastrofe
- Osja, amore mio
- Seduzione
- Adele
- Su quelle sponde
- Giacomo eremita
- Senza rete
- La tua giornata magnifica
- Solstizio
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