di Gianluca Clerici
Ciò che piace di più è la genuina e totale voglia di restituire all’espressione una libertà stilistica, antica, educata e soprattutto di mestiere. Niente è fatto a caso o a zonzo ma tutto sembra essere guidato dalla maturità di chi non ha bisogno dei giornali per avere conferme del proprio lavoro. Il Collettivo Ginsberg pubblica “Tropico” e ci piace moltissimo quel connubio del mondo antico con un disco ANALOGICO veramente alle scritture a volte più pop del previsto. Come non chiedere loro un punto di vista per Just Kids Society:
Fare musica per lavoro o per se stessi. Tutti puntiamo il dito alle seconda ma poi tutti vorremmo che diventasse anche la prima. Secondo voi qual è il confine che divide le due facce di questa medaglia?
Risponderò in maniera molto veniale: pagare le bollette e l’affitto in una qualche maniera con o senza musica. Se le paghi senza musica è più probabile che tu ti senta più libero artisticamente, senza vincoli. Se le paghi con la musica tutto ciò potrebbe cambiare, perchè significa che avere delle aspettative e soprattutto delle richieste / obblighi da rispettare (pubblico, vendite, concerti ecc ecc). Ammiro chi salda le bollette con la musica e si sente comunque e ancora appagato artisticamente, magari dopo anni. Ma, diciamoci la verità, quanti sono? Mi piacerebbe saperlo. Pago le bollette –a fatica- senza musica, in questo mi sento artisticamente libero, ti invito a ripropormi la domanda magari fra qualche anno, se ci vedi a San Siro forse saremo passati all’altra sponda!
Crisi del disco e crisi culturale. A chi dareste la colpa? Al pubblico, al mercato, alle radio o ai magazine?
Facile così, dare la colpa al mercato poi è la cosa più semplice! Anche il pubblico è un branco di capre, per non parlare delle radio che passano sempre i soliti brani dei soliti nomi noti e, infine, i magazine ovvero arbitri che vorrebbero fare i calciatori. La colpa, credo, prima di tutto sia degli artisti stessi, di coloro che dovrebbero essere i veri paladini della cultura, coloro che dovrebbero difenderla a spada tratta. Poi la globalizzazione, il capitalismo, il mercato – Amici di Maria e chi più ne ha più ne me metta – hanno sicuramente fatto il loro gioco, puntando alla forma piuttosto che alla sostanza (giusto per sintetizzare il concetto) ed è proprio a questo punto che l’artista o si ribella o si veste come gli altri, per rientrare nella cerchia di coloro che comandano i gusti delle persone; se l’artista non si ribella e non punta sempre in alto la propria proposta creativa, allora non è un vero artista, un artista non può non avere a cuore la questione culturale. Poi ci sono quelli che artisti non sono assolutamente, sono magari compositori, bravi musicisti, degni interpreti, ma oggi purtroppo ci troviamo a definire artista uno come David Guetta, un Corona o un qualsiasi tronista del cazzo, quindi stiamo messi proprio bene! Se si perde il significato delle parole, quando lo si perde alla radice, allora è un po’ come dire faccio la guerra per portare la pace.
Secondo voi l’informazione insegue il pubblico oppure è l’informazione che cerca in qualche modo di educare il suo pubblico?
Credo che oggi si crei informazione per soddisfare un certo pubblico ingordo di news, una dietro l’altra, di continuo, bacheche su bacheche piene di robe inutili, cazzate, video, viviamo nell’era dell’immagine, ne ho le scatole piene, contenuti, hype, se non sei sul web non esisti, informazione che non è informazione, è semplicemente gossip, ed è così che la tua domanda ha due risposte: l’informazione cattiva insegue il pubblico, quella buona tenta di educarlo.
La musica del COLLETTIVO GINSBERG sa di libertà, espressione, colore, sensazioni…insomma vita reale, analogica. In qualche modo si arrende al mercato oppure cerca altrove un senso? E dove?
Col mercato mi ci pulisco il culo, che si fotta il mercato e dovrai perdonare se sono scurrile. Noi non siamo nessuno, siamo gente che fatica per trovare un concerto pagato degnamente perché non abbiamo hype, non siamo fighi, non siamo su fb 24 su 24, non ci creiamo il pubblico online, non spendo la vita a farmi delle seghe sui social, non mi interessa ma purtroppo devo averci a che fare perché nel 2016 funziona così, vince chi ha la cresta più luminosa, non chi ha i capelli più sani. Fatico a vendere la tiratura limitata che abbiamo prodotto ma questo non mi importa perché so che la nostra musica sopravvivrà alle nostre carni, alle nostre ossa, è l’unica cosa che so, chissà se in vita ci verrà donata la gloria della riconoscenza artistica, sicuramente la riceveremo da morti, non ho dubbi. Rispondo a questa intervista come ad altre, interviste che nessuno legge secondo me, perché se le leggessero veramente qualcuno magari avrebbe da ridire, potrebbe non pubblicarle o dovrebbe essere sorpreso che uno sconosciuto sia così indiavolato nel rispondere a certe domande! Stiamo confondendo tutto, abbiamo più successo sul web che sotto le coperte. Io voglio solo piangere ogni volta che scrivo un brano triste, o ridere ed essere felice se scrivo un brano allegro. Voglio solo provare sentimenti e cantarli, metterli in musica, farli ascoltare a più gente possibile. Tento di emozionare. Non è cosa facile.
In poche parole…di getto anzi…la prima cosa che ti viene in mente: la vera grande difficoltà di questo mestiere?
Vivere in Italia.
E se aveste modo di risolvere questo problema, pensi che basti?
Beh, è un problemino un po’ grosso da risolvere, l’Italia!
Finito il concerto del Collettivo Ginsberg: secondo voi il fonico, per salutare il pubblico, che musica di sottofondo dovrebbe mandare?
Maiysha, dall’album “Get Up With It” di Miles Davis.