di Francesca Amodio
Pantaloni alla turca, larghissimi e coloratissimi, t-shirt estiva pezzata – rigorosamente non abbinata – piedi nudi, una statura e una corporatura esilissimi e una folta chioma scura di capelli, tutti sparati all’insù: è così che si presenta Jacob Collier sul prestigioso palco della sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma in occasione del Roma Jazz Festival 2016, e sarà proprio questo ventiduenne londinese la vera rivelazione di quest’anno.
Pupillo nientedimeno che di Quincy Jones, che ha recentemente parlato di Collier come di “un genio assoluto al pari di Herbie Hancock”, il giovane polistrumentista prodigio è un perfetto figlio del suo tempo: si fa conoscere al grande pubblico nel 2011, quando apre un fortunatissimo canale youtube che arriva a contare ben due milioni di visualizzazioni finché poi, come nella più sognante fiaba d’autore o nel più fantasioso romanzo di formazione, non arriva il signor Quincy Jones che nota il giovane Jacob e decide di farne una star reale e non più solo digitale.
Esce così l’album d’esordio dal titolo “In My Room” e questo relativo tour di Jacob Collier, in cui il musicista prodigio votato al jazz si circonda di quanti più strumenti possibili per dar sfogo alla sua arte musicale, con brani di quelli che lui stesso afferma essere due dei suoi miti di riferimento, Stevie Wonder e Burt Bacharach, fino a composizioni inedite e soprattutto di magistrale improvvisazione, ma non solo: di Collier sorprende anche la sua immensa dote vocale, il fatto che un corpo così piccolo possa contenere una voce così potente, calda e carismatica.
Di carisma appunto il ragazzo di Londra ne ha da vendere, a partire dalla sua giovialità, simpatia, semplicità, quasi a voler umilmente celare il genio sconfinato e l’estro di questo polistrumentista pazzesco, che con una nonchalance sbalorditiva passa da uno strumento all’altro nel giro di un quarto di secondo, a volte imbracciandone due contemporaneamente, il tutto tra fantastici visual e loop. Il risultato è straordinario.
Collier è agile in mezzo alla sua astronave strumentistica, a suo agio proprio come se si trovasse ancora in quella piccola room di casa sua dove tutto ha avuto inizio. Oltre alla straordinaria abilità tecnica di Collier, l’elemento che non fa staccare gli occhi e le orecchie dalla sua performance è anche più concettuale e impercettibile: il musicista in questione infatti è la dimostrazione pratica e reale del totale abbattimento di genere o barriera musicale, di qualsiasi artifizio di separazione delle categorie sonore, districandosi con cotanta maestria nella realizzazione di quello che regala, ossia uno spettacolo di pura energia musicale tout court, in cui è il tutto a costituire l’amalgama e il senso.
Jacob Collier conclude il suo show con una versione molto interessante di “Blackbird” dei Beatles, a cavallo fra elettronica e soul, ma soprattutto instaurando la rottura di vecchi stilemi formali e accademici, lasciando nell’ascoltatore un piacevole senso di novità autentica all’interno del panorama jazz internazionale, ma in generale, un’impronta significativa nello scenario delle nuove generazioni.