RECENSIONE: L’Introverso – Io

Recensione di Eleonora Montesanti

Per descrivere questo disco viene spontaneo partire da una citazione di Cesare Pavese: “in sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia.”

L’Introverso, giovane band milanese, nasce dall’urgenza di reagire alla società di oggi, dove la tecnologia urlante fa da padrona nella nostra quotidianità, allo scopo di riscoprire la bellezza di ciò che è intimo e riservato a pochi. Io è l’album d’esordio, uscito nel 2013 per La stanza dischi e prodotto da Alessio Camagni, e si compone di nove tracce basate su un rock pieno e consistente, accompagnato e contrapposto alla voce e ai testi di Nico Zagaria, entrambi introspettivi e delicati.

Sostanzialmente si tratta di un album il cui marchio si costruisce su temi intimistici con basi profondamente rock. Un disco che non nasce per essere accogliente, le chitarre di Marco Battista e Mattia Grilli e il basso di Futre sono molto densi, ma mai elementi troppo disturbanti, anche se, in alcuni punti, le sonorità sono un po’ complesse da assimilare.

Il brano d’apertura, Primo attore, risulta essere molto d’impatto. Gli accordi forti e la batteria di Elia Rocca affiancano il racconto della scelta di una morte spettacolarizzata dopo una vita da spettatore, perché l’assenza, a volte, è più forte della presenza. Molto interessante è il loop ripetuto di Noia, poiché rende perfettamente l’intento del brano, vale a dire inneggiare all’apatia, alla noia nel senso più esistenziale del termine. Va citato anche Da solo, sempre in linea con le tematiche precedenti, che vertono alla riscoperta dell’individualismo, della solitudine come necessità, come salvezza.

Oltre alla pura introspezione c’è un altro argomento ricorrente nelle canzoni de L’Introverso: il rapporto contrastante con la città d’origine, Milano. Viene spesso ricordata, ad esempio in Sospiri, canzone agrodolce, in cui l’autunno milanese fa da sfondo al lasciarsi andare alla spensieratezza, ma solo per un momento, poiché essa non è la nostra condizione naturale, e perciò ci rende indifesi. Il brano in cui Milano ha però il ruolo di protagonista indiscussa è L’America, uno dei pezzi più accattivanti di Io, nel quale c’è uno stretto collegamento tra l’individuo e la città, vista come salvezza da coloro che vi arrivano da fuori, ma fonte di disillusione e lacrime per chi ci vive da sempre.

Accanto alle canzoni più dirette di chiara ispirazione nel rock alternativo italiano degli anni Novanta, in particolare di Afterhours e Verdena, nell’ascolto di Io ci si imbatte anche in ballate delicate, quasi sussurrate, come Viaggiare e poi e Speranza, che riportano vagamente alle atmosfere del rock inglese anni sessanta. La prima, eseguita solo con piano e voce, racconta sensazioni suscitate dal cumulo dei ricordi di un viaggio, mentre la seconda è un’invocazione alla speranza come affidataria della salvezza dal pessimismo che di colpo ci inghiotte.

In conclusione, Io è un disco che non sente grande necessità di approcciarsi con l’esterno, è più un pellegrinaggio necessario nell’individualismo, nella misantropia e nell’interiorità, ma grazie alla sua delicatezza lascia una piccola porta aperta sul mondo, aspettando che una folata di vento la spalanchi del tutto. L’Introverso è una formazione molto giovane, che si sta ancora conoscendo e sperimentando, a tratti propone sfumature essenziali della propria personalità, che non vediamo l’ora di percepire ancora più matura.

IO – L’INTROVERSO
(La stanza dischi, 2013)

  1. Primo attore
  2. L’America
  3. Da solo
  4. Speranza
  5. Sospiri
  6. Nuvola rotta
  7. Tutto diverso
  8. Viaggiare e poi
  9. Noia

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