Live report di Francesca Vantaggiato
Foto di Federico Zanotti
Siamo partiti in tre da due città diverse, Aprilia e Milano, chi con una punto bianca scassata, chi con una moto che sembra uscita dalla Polonia occupata dai nazisti. Direzione: Festival Beat, 25° edizione, Salsomaggiore Terme.
Due giorni prima di quel fatidico venerdì che vedeva in cartellone King Automatic, Archie and the bunkers, The Rippers e The Mummies (capito, si?) ci chiama la proprietaria del b&b che avevamo trovato proprio di fronte al festival per dirci che la stanza era allagata, inagibile, prenotazione cancellata. Ingiurie e mai na gioia lanciati senza tregua, finché troviamo una soluzione salvatrice: prendiamo una tripla al Grand Hotel Salsomaggiore, 5 stelle, SPA inclusa. Si, proprio così. 5 stelle, SPA inclusa.
Salsomaggiore è una ridente cittadina di quelle che vengono bene nelle cartoline color seppia. Sembra fatta di borotalco. La gente passeggia in bermuda, le anziane camminano lente, le famiglie si ristorano bevendo latte e menta. Poi, tutto d’un tratto, per pochi fantastici giorni, la piazza e le stradine soleggiate vengono invase da orde di maschioni coi capelli impomatati, basettoni e gli anfibi, e da ragazze bellissime con gonne larghe, occhiali da sole giganti e fiori nei capelli. Senza parlare del rock’n’roll sparato a palla dalla Pasticceria Desirée direttamente sulla piazza. Non vi dico che gusto uscire dalla hall ovattata e smagliante del Grand Hotel con gli occhiali da sole inforcati e una birra sottobraccio e sbattere contro quest’onda di r’n’r completamente fuori contesto. Che goduria.
Gli organizzatori del Festival Beat conoscono bene il loro pubblico, infatti hanno predisposto delle magiche navette che partono dal centro e portano al parco dove si tiene il festival. Ma soprattutto, navette che riportano morti e feriti dal festival al centro città dopo la notte di bagordi. Ottimo. Prendiamo quella delle 21.30 e arriviamo in perfetto orario per vedere lui, il solo e unico King Automatic.
Appena partono le sue prime sconquassanti note danzerecce, mi parte un turbinio di ricordi di me a Bologna decenni fa, quando lo ascoltai per la prima volta. Altro che madeleine di Proust, qua si tratta della ciambella di Homer! King Automatic va come un treno, ti fa ballare di brutto, sbatte la chitarra sul charleston, fa partire pure qualche sound caraibico e reggae. Quest’uomo è pazzo! Quest’uomo è libero! Sono gasatissima. Quando scopro che suonerà ancora tra una band e l’altra impazzisco dalla gioia e per la follia decido di mettermi in fila per la birra (una fila mooolto lunga, ma vendono 5 birre a 15€ quindi la scelta è folle, ma verrà ripagata).
Salgono sul palco due ragazzini con batteria e organo, si chiamano Archie and the Bunkers e vengono da Cleveland, Ohio. Non faccio in tempo a domandarmi chissà che roba fanno questi che partono alla carica con un r’n’r duro, incazzatissimo, pieno di garage punk e varie cosette niente male. Sono carichissimi, sudatissimi, lanciatissimi. Emmett (batteria) ha un’espressione incarognita e suda talmente tanto che si toglie la maglietta mostrando un fisico da batterista tostissimo. L’altro, Cullen, salta come una molla e si lancia sull’organo fino a schiacciarsi ripetutamente la testa sui tasti (noncurante di disfarsi il magnifico ciuffo). L’ultima canzone è una cover, I feel all right dei The Stooges: per l’occasione, la batteria la suona un bel tipo magro sulla quarantina, maglietta rossa e calzoncini corti. Emmett prende il microfono e canta indiavolato, in pieno stile Iggy Pop. Rimango sconvolta.
È il turno dei The Rippers. Sarà che li ho già visti dal vivo (in tempi non sospetti, raccontato QUI), sarà che suonano dopo degli adolescenti forsennati senza inibizioni, sarà che sono anni ormai che sono sulla scena, fatto sta che mi cala l’attenzione e l’entusiasmo e decido di abbandonarli per andare a fare un’altra coda per la birra. Un po’ smorti i ragazzi.
Nuova birra in mano, sigaretta pronta, centro della folla raggiunto: sono pronta per i The mummies. La gente intorno a me è elettrizzata, si accalca sotto palco, urla, fischia, non sta più nella pelle. Sono anni che tutti aspettano questo momento. Arrivano e si scatena il pogo. Vederli nelle loro fasce sbrindellate è uno spettacolo, ti sale un veleno senza nome che ti lancia sulla folla a sgomitare e sudare, senza capire più chi sei. Loro saltano, si allungano sull’organo, riportano in vita il loro garage punk rozzo e cattivo.
Ma in un batter di ciglia è tutto finito, stop! Non faccio in tempo a dire a me stessa Cazzo, sto pogando al concerto dei The Mummies! che prendono e se ne vanno! Giuro! Mi fermo a riprendere fiato e a cercare di capire che sta succedendo, ma la verità è una sola: il concerto è finito. Mi faccio forza convincendomi che adesso tornano per il bis che durerà minimo minimo un’altra mezz’ora e allora iniziamo a chiamarli, a gridare il loro nome Mummies, Mummie, Mummies… ma invece no, il bis non ce l’hanno concesso. Ritrovo gli altri, ci prendiamo un’altra birra e rimandiamo tutte le riflessioni a domani. Ora è troppo presto per chiuderci in labirinti filosofici ossessivi fatti di ma perché non hanno fatto Justine? ma come mai hanno suonato così poco? Ma perché non si sono lanciati dal palco? E pippe mentali varie.
Perdo gli altri due e me ne vado a zonzo per il festival che tutto un mondo da scoprire. Spendo 15€ in vecchi numeri di Sottoterra (febbraio 2016, copertina Giuda; maggio 2017, copertina Germs; giugno 2017, copertina The Rippers).
Ritrovo gli altri e mangio un panino col cotechino. Mi prendo un’altra birra. Giunta all’altezza del banchetto del merchandising, vedo il batterista degli Archie and the bunkers che, inevitabilmente, decido di impezzare. È un tipo a posto, simpatico, educato, mi racconta che loro due sono fratelli, lui ha 18 anni, l’altro 16 (!); il tizio che si è messo alla batteria per l’ultimo pezzo è il loro papà (!); la ragazza mora bellissima che sta al banchetto è la loro mamma; questi giovani pazzi invidiatissimi genitori americani li hanno cresciuti a suon di pane e r’n’r, ma quello che preferisce ascoltare lui è il jazz (!). Sono sempre più sconvolta e penso ai miei 16 anni passati sul muretto di Nettuno a fumare cose pessime e bere birra calda. Decido di comprare una copia del loro disco in vinile.
Appena un metro più a sinistra, scorgo una figura alta col cappello: è lui, King Automatic! Ecco che parte la mia seconda impezzatura: non mi sfuggirà! Sono sinceramente felice di parlargli, gli racconto di quando studiavo a Bologna e ascoltavo i suoi dischi, sperando di vederlo un giorno in concerto. Lo ringrazio infinitamente per il live di stasera che per me è stato emozionantissimo. Poi inizio a impezzarlo di domande. Scopro che è di Nancy, cittadina dove a quanto pare non succede granché per cui lui si è messo a suonare. Gli chiedo come mai ha pensato di suonare il charleston con la chitarra e lui semplicemente mi risponde che di necessità virtù, visto che è da solo ha dovuto arrangiarsi. Gli faccio notare che non è il solo a farlo e lui risponde: si, ma io sono stato il primo! Gli chiedo se non gli manchi una band, a suonare sempre così, da solo e lui mi risponde che no, sta bene così com’è e che comunque ha un’altra band con cui suona. Gli dico anche che sono stata un anno a Parigi e che quindi so parlare francese. Lui sembra entusiasta della cosa, peccato che mi accorgo di non ricordare neanche una parola in francese e faccio una figura davvero misera. Ma secondo me gli ho fatto simpatia (o pena) e quando gli dico che sono dispiaciuta perché vorrei tanto un suo disco ma hanno già messo via il banchetto, lui mi porta nel retro, apre il portabagagli del furgone, comincia a tirare fuori tutta l’attrezzatura che ha faticosamente messo vi ordinatamente finché trova la valigia con i dischi e mi porge una copia di Lorraine exotica, il suo ultimo album. A momenti mi metto a piangere.
Torniamo al banchetto dove è comparso anche Reverend Beat Man (altro pazzo sotto l’ala della Voodoo Records) e mi chiede se lo conosco. Gli dico che vorrei taaanto farci due chiacchiere e impezzare anche lui, quindi se me lo presenta mi fa un grande favore. Sto per essere presentata al reverendo da King Automatic quando arriva una ragazza molto bella e molto francese che lo ferma e inizia a farlgi i complimenti. Vengo inesorabilmente eclissata, saluto e me ne vado a ballare coi miei dischi sottobraccio.
Dove c’è il bar si è creato un dance floor della madonna: la Festival Beat Dj Crew sta mettendo musica a manetta, roba rock, garage, r’n’r. Anch’io voglio ballare, ma è un casino con quei vinili. A fatica e con grossa paura, li faccio entrare nello zaino e scolpisco un mantra nelle tavole della legge nella mia testa: mai, mai, mai comprare dei vinili prima di andare a ballare. Seguono varie birre. Mi scateno in pista ma mi accorgo velocemente che la gente che balla da sola non piace: non riesco a inserirmi in nessun gruppo, non mi fila nessuno, la gente mi scansa! Sono un po’ interdetta dalla cosa, quindi decido che la mia missione deve essere ballare da sola vicino ai gruppi più numerosi fino al punto di farmi includere: dovranno accettare forzatamente che c’è gente che balla da sola. Proprio mentre elaboro questa strategia, noto affianco a me un viso familiare: ma è King Automatic! Mi dice Ciao Francesca! Che ci fai qui? Ti sei cambiata i vestiti? (effettivamente si, mi ero tolta la felpa perché si schiattava dal caldo,ma cazzo lui doveva essere davvero sobrio per ricordarselo!). Decido di svelargli la mia tattica mirata a ridare dignità alle persone che ballano da sole e gli mostro come si fa lanciandomi in pista. Inspiegabilmente, quando mi volto per cercare il suo sguardo illuminato non lo trovo più!
Alle ore 05.00 siamo rientrati al Grand Hotel Salsomaggiore. Non chiedetemi come abbiamo fatto perché non me lo ricordo. Gran bella serata.