Recensione di Gustavo Tagliaferri
Ci sono le radici americane, c’è uno sguardo che non disdegna il soul ed il blues, ma c’è anche la necessità di farsi avanti secondo un’esperienza che, quasi misticamente, finisce per portare in Inghilterra e magari pure in terre teutoniche, con lo scopo di contestualizzarne il relativo patrimonio reinserendolo nei giorni nostri. Pescare a piene mani da tutto ciò può portare per vent’anni alla concezione di un sound proprio, riconoscibile e mai prossimo alla ripetitività? Se il cuore pulsante è costituito da Ferruccio Quercetti e Carlo Masu e porta avanti con molta dignità quella macchina chiamata CUT evidentemente sì. La devozione alla fine è solo un particolare nel momento in cui questa preferisce sublimarsi in qualcosa di unico, e a vent’anni dalla propria nascita e sette da “Annihilation Road”, con in mezzo uno split con gli amici Julie’s Haircut, fa decisamente piacere avere a che fare con un album del genere. “Second Skin” come rinascita, “Second Skin” come consapevolezza della propria inimitabile attitudine, per certi versi un po’ DIY, “Second Skin” come lavoro all’insegna della festa, ma soprattutto come concentrato di tritolo che in dodici tracce, favorite da molteplici magnifiche presenze (Mike Watt, Andrea Rovacchi, Paolo Raineri, Stefano Pilia…), non delude minimamente le aspettative né tantomeno si adagia sugli allori come certuni abituati a vivere meramente di rendita. Sorretto da una performance vocale, quella di Quercetti, mai fuori posto, tanto sporca quanto di classe, c’è tutto un bagagliaio che non fa ecceziona alcuna, passando dall’hard blues (le distorsioni pulsanti di Shot Dead) ad un boogie tanto da strappare dalle proprie radici con lo scopo di improvvisare nella chiosa un simil-ska (Holy War) a sua volta maggiormente realizzato altrove (Parasite), quanto da rendere, con i suoi ritmi incessati, terra bruciata per fuzz e psichedelia (peculiarità che imperversano in Automatic Heart Tacoma Time Travel), ma anche per situazioni maggiormente grezze eppur celanti un’ossatura quasi clashiana (la titletrack), se non con un germe d’autore, la cui maggiore via di espressione è quella (Take It Back To The Start) che inocula una dose di intimità in più al tutto, senza per questo tralasciare un groove assai travolgente, tendente all’esotico nel piano Rhodes di accompagnamento. Non da meno la dimensione beat spezzata e piegata a mò di wah-wah immergendosi nel garage e nel proto-punk (Crash And Burn), la presenza di bivi onirici e spinti favoriti da arpeggi di chitarra che paiono vibrare a mò di mellotron (l’excursus di You Killed Me First), il post-hardcore di matrice fugaziana, espresso tramite un coacervo di riff e riverberi (Too Late, Catch My Fall), un pizzico di post-punk (The One Who Waits) e divagazioni zeppeliniane (la frenetica e nervosa Paralysed). Il tempo non esiste, quanto semmai la passione, che annichilisce ogni rischio di banalità e permette ai CUT, ragazzi ormai uomini, di risultare sempre all’altezza della situazione e molto più avanti di certi giovinastri particolarmente blasonati. “Second Skin” è un disco da fare proprio, raccomandato non solo agli ammiratori di certe sonorità.
CUT – Second Skin
(2017, Area Pirata Rec / Dischi Bervisti / Antipop / Bare Bones Productions)
1. Shot Dead
2. You Killed Me First
3. Too Late
4. Parasite
5. Automatic Heart (Tacoma Time Travel)
6. Take It Back To The Start
7. Second Skin
8. Holy War
9. The One Who Waits
10. Paralysed
11. Catch My Fall
12. Catch And Burn